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A bordo campo

Il popolo delle valigie: i frontalieri e il coronavirus

Da mesi ormai si parla in continuazione di tamponi e test sierologici e ovviamente un’attenzione speciale è riservata ai frontalieri che vanno e vengono da regioni con preoccupanti tassi di casi positivi e sovraffollamenti in ospedali e cliniche

Anni fa, diciamo una quarantina, un collega de “L’Eco di Bergamo” – Roberto Ferrante – durante uno degli abitudinari passaggi in una redazione che era ad accesso totalmente libero, mi buttò là un’intrigante idea. “Perché non facciamo un bel reportage sui molti bergamaschi che lavorano nel Ticino?”. Erano e sono i protagonisti di un mestiere che non cambia mai: partenza in ore antelucane al lunedì e rientro al venerdì sera per stare con la famiglia e… per continuare a lavorare, nell’ambito familiare. Era un altro mondo, le giornate avevano un’altra cadenza e anche la velocità conosceva altri ritmi. Le fatiche erano sempre pesanti e anche il distacco da casa per 5 giorni si faceva sentire, ma era comunque meglio delle lontananze conosciute dai padri e dai nonni che facevano gli stagionali oltre San Gottardo dall’esordio della primavera all’autunno avanzato.

L’intuizione di Ferrante fu accarezzata a lungo ma non andò mai in porto. D’accordo che anche il giornalismo d’allora era altra cosa, più garibaldino: in genere si riusciva a realizzare quel che l’esperienza o la creatività o tutt’e due le dimensioni suggerivano. Si partiva e si faceva: il computer era ancora di là da venire, la tecnologia era una parola astratta e lo scrivere non si misurava in numero di caratteri ma si viaggiava a suon di cartelle. Qualche caposervizio, nei miei anni di aspirante giornalista, mi ripeteva ogni volta, distaccando gli occhi dal foglio su cui scriveva – naturalmente ancora a mano – e incurante della “notizia” che gli proponevo: “Fai giù una matita”. Ecco, la lunghezza della matita era l’invariabile metro di misura degli eventi nella mia valle ai piedi del Resegone, che fossero piccoli o anche un poco significativi.

Era difficile, anzi impossibile cercare di “quantificare” un fenomeno che sfuggiva ai più, sia nei Comuni di partenza che di arrivo. Sì, nella Svizzera era già attivo e molto efficiente l’Ufficio controllo abitanti, ma allora nel Cantone Ticino si contavano 250 Comuni e i nostri emigranti settimanali “sciamavano” ovunque, dalle città – Chiasso, Lugano, Locano, Bellinzona – alle valli, fino ad Airolo, ultimo paese di destinazione dei lavoratori orobici, ovunque richiesti per le loro riconosciute doti di laboriosità e anche di facile ambientamento. Chi avrebbe mai potuto sobbarcarsi a un lavoro così meticoloso e capillare di ricognizione?

Una ricognizione rimasta incompiuta

Quella proposta è rimasta una delle poche incompiute, a dispetto dell’interesse che conteneva. Va precisato che allora “firmare” un articolo su “L’Eco” era un traguardo ambito e bisognava sudarlo per raggiungerlo. C’erano firme di rilievo come quelle di Franco Rho, Misio Tagliaferri, l’avvocato Michelato, i due fratelli Possenti, Vavassori… e al timone c’era il saldo comandante in clergyman, don Andrea Spada, più noto come Gladius, pseudonimo dei suoi editoriali che orientavano la vita della provincia.

Si è fatto qualche tentativo, ci sono stati diversi raduni di emigranti, voluti dalla Provincia nei due mandati di Valerio Bettoni, a sua volta con familiarità di valigie (emigranti il padre e il nonno), ma nessuno ha un quadro dell’emigrazione bergamasca nel mondo intero. Quel che è certo è che sono ancora molti coloro che partono il lunedì mattina presto verso il Ticino e rientrano il venerdì sera nei paesi bergamaschi. In genere tutti hanno un appartamento in cui vivono, talvolta sono padri e figli o parenti o amici che condividono un alloggio a costi moderati.

Da Lombardia e Piemonte, colonne quotidiane

Si conosce invece molto bene, e con aggiornamenti puntuali, la geografia dei frontalieri, cosa fanno, dove vanno ogni mattina, provocando incolonnamenti sulle strade e malumori tra la popolazione del Ticino. Proprio in questi giorni è stato diffuso il numero raggiunto dal popolo di questi migranti di giornata: si è superata quota 70 mila. Per l’esattezza, alla fine del terzo trimestre del 2020 i detentori di un “permesso G” erano 70.078, in crescita dell’1,1% rispetto al trimestre precedente (69.288) e dello 0,1% su base annua (69.998). Si tratta della cifra più alta mai raggiunta: l’aumento più consistente si è avuto nel terziario. Sono una locomotiva dell’economia cantonticinese e si mettono in viaggio dalle 6 alle 8 dalle province di Como e Varese, soprattutto, ma anche di Sondrio, Novara, Verbania (il raggio di provenienza è di 50 km dal confine). Lavorano nella sanità, nell’edilizia, nell’alberghiero.

Si è fatto un gran parlare di loro soprattutto in queste stagioni di coronavirus: durante il confinamento di primavera si era arrivati a predisporre per loro – tenuti a rincasare ogni sera al loro domicilio in Italia – sistemazioni in alberghi, pensioni e simili per non perdere le loro prestazioni professionali, soprattutto di infermieri e medici in un periodo di alta emergenza.

A livello svizzero i frontalieri che arrivano da Francia, Germania, Austria sono 341 mila, in crescita dell’1,7% rispetto al terzo trimestre del 2019. Poco più della metà di loro è domiciliata in Francia (55%), mentre il 23,5% e il 18,2% provengono da Italia e, rispettivamente, Germania.

Nel settore primario sono impiegati 2.357 frontalieri (+ 2,6% su base trimestrale e +6,1% su base annua), nel secondario 111.179 (+0,3 e +1,8%) e nel terziario 227.649 (+0,3% e +1,6%).

Da mesi ormai si parla in continuazione di tamponi e test sierologici e ovviamente un’attenzione speciale è riservata ai frontalieri che vanno e vengono da regioni con preoccupanti tassi di casi positivi e sovraffollamenti in ospedali e cliniche.

Va detto che purtroppo il pericolo/rischio è bilaterale, quando si consideri che la Svizzera con 8,6 milioni di abitanti ha fatto registrare oggi – giovedì 5 novembre – 10.128 contagi segnalati, con 399 ricoveri e 62 decessi. Spostando l’attenzione sul Ticino – con 360 mila abitanti – i nuovi casi registrati sono 452 con 4 decessi. Parafrasando il noto proverbio e spostandoci da Atene e Sparta ai giorni nostri, si può concludere che se Roma e Milano piangono, Berna e Lugano non ridono.

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