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Che anno il 1971! Da “Il segno del comando” a “E le stelle stanno a guardare”

E, tra gli altri sceneggiati, anche L'Eneide: nei panni di Enea, tormentato dalla propria missione, combattuto tra l'amore e il volere divino, Giulio Brogi regala un'interpretazione intensa

Il 1971 è un anno denso di sceneggiati televisivi molto apprezzati dal pubblico. “I Buddenbrook”. Dalla sceneggiatura di Jack Pulmann per la BBC (tratta dal romanzo di Thomas Mann e tradotta da Emilio Castellani), Italo Alighieri Chiusano e Fabio Storelli realizzano un testo televisivo all’insegna di una maggiore “italianità”. Alla ricerca di una più fedele aderenza all’opera, vengono recuperati alcuni episodi sacrificati nella versione inglese e ridotte parti ritenute superflue, tenendo conto anche di un supposto diverso livello culturale del pubblico italiano. Le quattro generazioni dei mercanti di Lubecca hanno i volti di Valentina Cortese, Nando Gazzolo, Ileana Ghione, Evi Maltagliati, Glauco Mauri, Rina Morelli e Paolo Stoppa. La regia delle sette puntate, in onda dal 21 febbraio è di Edmo Fenoglio.

Il Segno del comando” è uno sceneggiato prodotto dalla Rai con al centro le vicissitudini giallo-esoteriche del professor Edward Forster. Fu trasmesso tra maggio e giugno dal Programma Nazionale, e fermava tutta l’Italia che seguiva con crescente attenzione le sue puntate.

Lo sceneggiato è scritto da e Flaminio Bollini e Giuseppe D’Agata, con la collaborazione al soggetto di Dante Guardamagna e Lucio Mandarà. Le scene sono di Nicola Rubertelli. Le musiche di Romolo Grano. La regia di Daniele D’Anza. Lo sceneggiato è stato un grande successo televisivo con una media di più di 14 milioni di spettatori, in un’epoca in cui oltre ai due canali Rai non esistevano reti private e certo fra i più mitici fra gli sceneggiati tv prodotti dalla televisione italiana.

Fu un’incursione in territori fino a quel tempo inesplorati dalla narrazione della tv pubblica. Oltre ai recinti nobili e rassicuranti dei grandi classici della letteratura, ci si spingeva a mescolare piani e generi in grande libertà. Gotico e spy story, feuilleton e ricostruzione storica, toponomastica ed esoterismo, riferimenti colti e pop. Gli ingredienti sono quindi ottimi e abbondanti, dal forte impatto emotivo; ambientati in una Roma notturna ed insolita, soave e randagia, ambigua e languida, aggressiva e indifesa, difficile da dimenticare.

Un professore di letteratura di Cambridge (Edward Foster, Ugo Pagliai) gran conoscitore di Lord Byron di cui ha pubblicato in patria la prima parte del diario romano ha, in virtù di questo, ricevuto un doppio invito a recarsi nella Capitale. Uno di questi inviti è istituzionale, inviatogli dall’addetto culturale dell’ambasciata britannica a Roma (George Powell, Massimo Girotti). L’altro, misterioso, tramite una lettera a firma del pittore Marco Tagliaferri, che ne solletica la curiosità allegando una fotografia del luogo evocato dal poeta in un appunto: “21 aprile 1817, notte ore 11: esperienza indimenticabile, luogo meraviglioso, piazza con rudere romano, chiesa rinascimentale, fontana con delfini, musica celestiale, messaggero di pietra, tenebrose presenze”.
L’azione parte da via Margutta 33, lo studio del pittore, abitato solo dalla modella dell’artista, Lucia (Carla Gravina). La sua fu la presenza più iconica ed enigmatica dello sceneggiato in cui spiccavano attori come Andrea Cecchi, Rossella Falk, Franco Volpi, Carlo Hintermann, Paola Tedesco, Silvia Monelli. Nella memoria del pubblico è restata anche la sigla: la canzone “Cento campane”, composta nel 1952 dall’attore, sceneggiatore e compositore Fiorenzo Fiorentini e poi riarrangiata per l’occasione da Romolo Grano. Il cantante è Nico Tirone, già leader del gruppo Nico e i Gabbiani. “Cento campane” sarà poi cantata e portata al successo da Lando Fiorini.

stelle stanno a guardare

Se oggi ci accostassimo alla visione de Il segno del comando (come ad altri sceneggiati dell’epoca), saremmo costretti a confrontarsi con canoni estetici diversi da quelli attuali, con un linguaggio lontano da quello cinematografico, con scelte narrative condizionate dai mezzi tecnici limitati. Quanti invece hanno ancora memoria della prima messa in onda, rivivono con sincera partecipazione le emozioni del passato, purché evitino accuratamente ogni confronto con quanto propone la televisione contemporanea (anche perché spesso le orribili fiction di oggi puntano a essere rassicuranti e omologate). È opportuno allora qui ricordare quanto il modo di fruizione delle suddette si sia trasformato, tanto da rendere difficili eventuali paragoni col passato. Serial e miniserie sono divenute prodotti di consumo, un mordi e fuggi mediatico che intrattiene ma lascia ricordi sbiaditi. Cosa ben diversa dalle emozioni che ci facevano vivere gli sceneggiati prodotti tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. L’approccio con “Il segno del comando” può quindi risultare ostico se si distacca l’opera dalle condizioni sociali e culturali dell’Italia di quegli anni. Anche la recitazione, ancora di stampo teatrale, come avveniva negli sceneggiati del decennio precedente e il tono delle battute sempre impostato su un registro “alto”, lontano dal linguaggio quotidiano, potrebbe risultare fastidiosa. Invece il lessico e il modo di esprimersi così lontano da quelli consueti, risulta infine straordinario.

Diretto da Anton Giulio Majano e basato sul romanzo omonimo di Archibald Joseph Cronin pubblicato per la prima volta nel 1935 “E le stelle stanno a guardare” (The Stars Look Down), fu anch’esso uno sceneggiato di successo, ancor più del precedente, almeno in termini di spettatori (19,7 milioni in media). Tra gli interpreti veri e propri mostri sacri del cinema italiano di quegli anni: Andrea Checchi, Giancarlo Giannini, Orso Maria Guerrini, Loretta Goggi, Adalberto Maria Merli, Annamaria Guarnieri, Anna Miserocchi e Scilla Gabel.

Il romanzo è ambientato a Sleescale, una cittadina mineraria sulla costa del Northumberland, una cittadina fittizia, ma un perfetto esempio di cittadina analoga ad altre reali, ricreata grazie all’esperienza maturata dall’autore come ispettore medico minerario nel Galles durante gli anni Venti del secolo scorso. Assistiamo così alla drammatica vita dei minatori inglesi di quel tempo, una narrazione vissuta attraverso una saga familiare sullo sfondo della lotta di classe e senza risparmio di espedienti “strappalacrime”.

La storia parte prima della Prima guerra mondiale e continua fino agli anni Trenta, e racconta le vicissitudini di alcuni personaggi: principalmente quelle di un minatore e di suo figlio che studia per poter migliorare le condizioni dei lavoratori, di un minatore che diviene un uomo d’affari e del figlio del padrone della miniera che entra in conflitto con il padre autoritario. Così come nel libro, anche in televisione la vera protagonista delle vicende è la miniera e i personaggi esistono soltanto in funzione del sottile rapporto di odio-amore che li lega al sottosuolo.

Alcune scene sono girate in esterni, la maggior parte in studio; in interni è girata la celebre sequenza dei minatori intrappolati in una galleria pericolante, episodio che descrive molto bene il panico e la disperazione, ma anche il loro coraggio e la loro forza d’animo.

La vita di Leonardo da Vinci”, in onda dal 24 ottobre in cinque puntate, abbraccia tutta la vita del celeberrimo artista dalla nascita alla morte, ed è basato in gran parte sulla sua biografia scritta da Giorgio Vasari nel suo “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”. Renato Castellani, il regista, è anche autore insieme a Cesare Brandi del soggetto e della sceneggiatura. Interpretato dall’incredibile Leonardo/Philippe Leroy, e con Giampiero Albertini, Marta Fischer, Renzo Rossi, Bruno Cirino, Bianca Toccafondi, Ottavia Piccolo e Giulio Bosetti nel ruolo del narratore.

Le riprese furono effettuate in varie località d’Italia: Faleria, Ostia Antica, Roma, Città del Castello, Urbino, Gubbio, Treviso, Venezia, Milano, Firenze, Civita Castellana, e in Francia. Fu previsto per questo programma un grosso investimento e furono scritturati oltre cento attori e circa 500 comparse per una coproduzione internazionale: Rai, Ortif, Tve, Istituto luce.

Della vita di Leonardo, che è certamente tra le più grandi figure della Civiltà Italiana quella più conosciuta e popolare in tutto il mondo, ci sono pervenute poche e frammentarie notizie. Eppure, proprio questa difficoltosa lettura del personaggio, è stato lo stimolo a tentare un programma che cercasse di restituirlo anche al vasto pubblico della tv nella più vera dimensione di uomo. Ma per Leonardo non sembravano essere validi gli “schermi spettacolari” di “vite sceneggiate” già adoperati con successo in altre biografie televisive: per un personaggio così complesso e sfumato, entrato a forza nella leggenda già pochi anni dopo la sua morte occorreva una chiave nuova. Renato Castellani, a cui si era subito pensato quale autore del programma anche in virtù di certe sue doti di accuratezza e di precisione filologica, propose quella di uno spettacolo inchiesta che potesse rispondere alle più inquietanti domande sulla personalità di Leonardo uomo, artista e scienziato.

“Come in realtà era quest’uomo così socievole in apparenza, qual era il suo carattere, come si era formato è come questo carattere ha influito o si è riflesso nelle sue opere?” Questo l’interrogativo che si è posto il regista. Ed è a questo interrogativo che lo spettacolo cerca di rispondere; così prese corpo la figura di un conduttore, un uomo dei nostri giorni che potesse commentare, chiarire, discutere, proporre di volta in volta, quando fosse necessario, sui dati certi e su quelli probabili della vita al tempo di Leonardo, tutti i problemi posti dalla ricostruzione scenica. Un conduttore del programma, che muovendosi, entrando e uscendo dalle scene, lui in abiti moderni tra i personaggi e gli ambienti rinascimentali, approfondisce, proprio nel segno dell’inchiesta, il significato più riposto della personalità dell’artista.

Tuttavia, il programma non si risolse soltanto in una sorta di giallo psicologico. Castellani, ricercando pazientemente nelle cronache nei documenti dell’epoca tutti i dati necessari a ricostruire con attendibilità, nella sua esattezza storico sociale, l’ambiente in cui Leonardo aveva agito, ha delineato anche un grande affresco del Rinascimento italiano. Lo spettacolo presenterà così un’affollata galleria di uomini illustri, principi o artisti, e avrà per scenario naturale vecchi palazzi, castelli e fortezze, strade piazze rinascimentali. Su queste grandi linee di sviluppo, la scrittura della sceneggiatura, a cui ha dato la sua consulenza il professore Cesare Brandi, ha impegnato il regista per circa due anni.

Nonostante il successo che gli sceneggiati gialli tratti dalle opere di Francis Durbridge avevano sempre riscosso tra i telespettatori italiani, nessuno, ad eccezione di “Un certo Harry Brent”, era mai riuscito a piazzarsi nella Top Ten degli ascolti. Cosa che invece riuscì, e con ancor più successo del precedente, a “Come un uragano”; il pubblico televisivo, infatti, premiò lo sceneggiato con l’incredibile media di quasi ventidue milioni di spettatori a puntata, e con punte di oltre venticinque nell’ultima. Il miglior risultato di ogni tempo per un giallo alla televisione italiana.

Ancora una volta, sotto l’attenta regia di Silverio Blasi, regista esperto ma esordiente assoluto nel genere poliziesco, Biagio Proietti fu chiamato a adattare la traduzione di Franca Cancogni del testo di Durbridge, per produrre una nuova sceneggiatura che soddisfacesse le esigenze di durata richieste dalle trasmissioni RAI. E per la prima volta (evidentemente questo era lo sceneggiato delle “prime volte”), lo fece, non limitandosi ad aggiungere od allungare scene e dialoghi, ma inserendo un’altra trama nella trama originaria. Infatti, a grandi linee, la storia narrata dallo scrittore britannico raccontava di un delitto progettato da una donna e dal suo giovane amante ai danni del marito di lei, e dei guai in cui i due improvvisati criminali incappano quando il cadavere scompare e qualcuno comincia a perseguitarli. Si trattava, come si vede, di un giallo un po’ più classico dei soliti di Durbridge, in cui alla base della narrazione, solitamente, vi erano organizzazioni criminali e misteriosi capi senza volto. Proietti pensò bene di reintegrare nella storia proprio quei requisiti che “mancavano”, rinforzando il plot con elementi più caratteristici dello stile “durbridgiano”.

Lo sceneggiato poteva sfoggiare un cast di tutto rispetto: Alberto Lupo, redivivo dopo l’infelice fine di “Un certo Harry Brent“, tornava nel ruolo dell’ispettore Clay; la splendida e giovanissima Delia Boccardo (allora appena ventitreenne) era Diana Stewart; Corrado Pani, altro idolo del pubblico femminile dell’epoca, era Mark Paxton; e poi, Renzo Montagnani come Bill Grant, Adriana Asti e Cesare Barbetti nella parte di Glenda e Paul Cooper, Nora Ricci, vecchia gloria del teatro italiano, come la ficcanaso Kitty Ryan, Renato De Carmine come il losco Albert Roach.

eneide

Sulla base di una libera trasposizione del poema epico “Eneide” di Publio Virgilio Marone, viene trasmessa, dal 19 dicembre, una versione televisiva in sette puntate. La sceneggiatura moderna ed efficace, che tratteggiava un eroe con problemi esistenziali, fu scritta da Arnaldo Bagnasco, Vittorio Bonicelli, Pier Maria Pasinetti, Mario Prosperi, Franco Rossi. Del cast tecnico fecero parte grandi professionisti, quali Vittorio Storaro come direttore della fotografia e Luciano Ricceri per la direzione di scenografia e costumi.

La storia dell’eroe viene narrata a partire dal naufragio delle navi troiane sulle coste dell’Africa, fino alla nascita della stirpe che darà origine alla civiltà di Roma. Nei panni di Enea, tormentato dalla propria missione, combattuto tra l’amore e il volere divino, Giulio Brogi regala un’interpretazione intensa, affiancato da Olga Karlatos (Didone), Andrea Giordana (Turno), Marilù Tolo (Venere), Ilaria Guerrini (Giunone), Alessandro Haber (Miseno). La voce del narratore è quella di Riccardo Cucciolla. Gli esterni vennero girati nell’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

I primi anni Settanta sono anche un momento magico della produzione filmica della RAI, in cui, sempre più spesso, gli sceneggiati assomigliano più a dei veri film, pur mantenendo le peculiari caratteristiche di adattare per la televisione un’opera letteraria. Da ricordare, perciò, sempre per il 1971, due film per la tv: “Socrate”, diretto da Roberto Rossellini e “Olimpia agli amici” con la regia di Adriano Arpà.

https://www.youtube.com/watch?v=UxZsYhfj8kY&ab_channel=ConradCati2

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