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L'intervista

Miriam Gualini: “Innovativi non si nasce, si diventa”

Dopo il prestigioso riconoscimento abbiamo chiacchierato con l'Ad di Gualini Lamiere International: "Policy di genere? Preferisco definirle politiche per la famiglia. Le quote di genere? Una necessità"

Miriam Gualini, l’imprenditrice a capo della Gualini Lamiere International, la “lady di ferro” bergamasca, è riuscita a vincere i pregiudizi di un intero comparto industriale. Da quasi 30 anni guida l’azienda fondata nel 1956 dal padre, Cavalier Lorenzo Gualini, specializzata nella lavorazione di acciaio e materiali metallici, la stessa scelta da Renzo Piano per il nuovo ponte di Genova. Il Premio GammaDonna 2020 ha decretato che è lei la migliore imprenditrice innovativa d’Italia.

Un titolo “pesante”, quello di migliore imprenditrice innovativa d’Italia. Cosa vuol dire per lei essere innovativi?

Essere innovativi prima di tutto nel pensiero. L’innovazione tecnologica, di processo, di prodotto arrivano di conseguenza: tutto è determinato dalla capacità e dal coraggio di andare oltre al “qui e ora”, di spingere in là il proprio pensiero, di immaginare il miglior futuro possibile.

Visionari si nasce o si diventa?

Lo si diventa, allenando la propria capacità a mettere in discussione ciò che esiste e cercando la relazione e la contaminazione con quello che sta fuori di noi, dalle nostre aziende, dalla nostra “comfort zone”. Dobbiamo allenarci a tenere una mente aperta e permeabile.

Un allenamento vero e proprio.

Per me è stato e resta indispensabile frequentare i luoghi dell’innovazione e del pensiero creativo del nostro territorio: Confindustria Bergamo, il consorzio Intellimech, il cluster della Fabbrica Intelligente. Il dialogo e il confronto con imprenditrici e imprenditori che accettano con passione la sfida di immaginare e costruire il domani. Dentro queste organizzazioni, per esempio, si parlava di digital innovation hub e competence center prima che esistessero anche solo sulla carta. Restare curiosi e aperti alle contaminazioni è fondamentale.

Quella bergamasca è una comunità che spinge sull’acceleratore dell’innovazione?

Direi proprio di sì. Pensiamo al Kilometro Rosso e a Bergamo Sviluppo, che danno un contributo determinate nell’accelerazione e incubazione d’impresa; ai nostri due Digital Innovation Hub, quello di Confindustria e di Imprese & Territorio. Il Punto impresa digitale di Bergamo è tra i primi nati in Italia e i bandi per l’innovazione fanno sempre il tutto esaurito, ambitissimi dalle imprese anche piccole e medie. Abbiamo un’Università eccellente, penso ad Ingegneria in particolare, molto vicina alle imprese, che partecipa attivamente a tutti i progetti più importanti di sviluppo dell’innovazione e condivisione della conoscenza. Un progetto importante è quello che ha dato vita al consorzio di ricerca nella meccatronica, JointLab, dedicato alla robotica e alla meccatronica applicate in ambito industriale avviato da Intellimech con l’Istituto di Tecnologia di Genova insieme a Confindustria Bergamo, Kilometro Rosso, Università di Bergamo. Penso ad ABB che ha sviluppato un progetto di filiera per mappare la maturità digitale dei suoi fornitori e sostenere i progetti di digitalizzazione. E ci sarebbe ancora tanto altro da dire.

E in azienda, come si favorisce l’innovazione?

Con la condivisione della conoscenza. Nelle nostre aziende ci sono grandi menti, penso a ingegneri di progetto e a figure chiave nella ricerca e sviluppo che possono avere la tentazione di lavorare a “silo”, per compartimenti stagni per intenderci. Lavorare sulla diffusione e condivisione della conoscenza ha tre vantaggi: rende le persone più motivate e desiderose di crescere, l’azienda meno vulnerabile e il territorio più ricco. Credo sia importante disegnare percorsi di carriera e di crescita nelle aziende, anche medie e piccole. Creare momenti trasversali di formazione: condividere conoscenza è il meglio che si possa chiedere per crescere.

Parliamo di occupazione femminile. Nella nostra provincia lavora 1 donna su 2. Perché secondo Lei?

Ci sono più aspetti da tenere in considerazione. Siamo sempre stati una provincia con un buon tasso di benessere e occupazione generale per cui molte donne, in passato, hanno fatto la scelta di occuparsi a tempo pieno della famiglia. Questo è un dato storico, che non è più valido per le nuove generazioni. Oggi le giovani donne vogliono affermarsi anche nel lavoro oltre che nella vita personale. Inoltre, soffriamo di una carenza strutturale di servizi a supporto della famiglia, non solo delle donne tengo a specificare. Questo non è un tema di genere ma riguarda tutti, donne e uomini. La mia è un’azienda di uomini, giovani papà molti under25, che desiderano allo stesso modo delle loro compagne, flessibilità e strumenti per far convivere lavoro e famiglia. Asili nido, scuole con servizio mensa e post orario didattico accessibili a tutti farebbero la differenza. Non possiamo basare il nostro welfare sui nonni. La situazione attuale d’emergenza ha messo ancor più a nudo la carenza di politiche pubbliche per la famiglia.

Cosa pensa delle policy di genere?

Preferirei chiamarle “policy di famiglia” non di “genere”: facendone una questione di genere si rischia di ghettizzare la donna. Non chiediamo alle aziende di adottare strumenti per le donne ma per le famiglie. I giovani padri che lavorano in azienda hanno gli stessi problemi, preoccupazioni e desideri delle madri. La narrazione deve essere diversa. La domanda che tutte le aziende dovrebbero porsi è: come possiamo sostenere le famiglie? I ragazzi del 2000 non ne fanno una questione di genere. C’è un’equità non paragonabile al passato. Quando parlo di genere con i miei figli, di 27 e 21 anni, mi guardano stralunati. È una questione di merito non di genere. Sono loro che mi stanno facendo scoprire questa nuova prospettiva. Sono certa che nell’arco di poco tempo le cose cambieranno.

Da dove potrebbero cominciare le aziende?

Dall’ascolto, senza dubbio. Ascoltiamo i nostri lavoratori e lavoratrici, chiediamogli cosa vorrebbero. In azienda abbiamo somministrato un questionario anonimo a tutti i dipendenti chiedendo loro cosa avrebbero voluto migliorare dell’organizzazione esistente. La risposta, a prescindere dal genere, è stata una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro. Partecipare alla gestione familiare e alla cura dei figli non è solo una necessità ma un desiderio, un obiettivo personale anche per molti uomini.

Quante donne lavorano da lei in azienda?

Una decina, su un centinaio di dipendenti. Siamo metalmeccanici e le donne saldatore sono ancora poche per non dire pochissime. Iniziamo, e ne siamo tutti soddisfatti, a trovare diplomate e laureate in materie tecnico-scientifiche ma per vedere il cambio di passo nella produzione ci vorrà tempo. Ecco: un altro elemento per favorire l’occupazione femminile sul territorio è promuovere e orientare la formazione delle donne verso le materie STEM (ndr acronimo inglese che sta per Science Technology Engineering Mathematics).

Cosa pensa delle quote di genere?

Penso che oggi sia una necessità. Non siamo ancora pronti per garantire un’inclusione piena delle donne nei luoghi decisionali senza la forzatura delle quote. Tra 10 anni, forse, il merito avrà la meglio sul genere e non serviranno più ma ora sì, sono utili. Serve anche però che le donne si mettano a disposizione per partecipare ai processi decisionali.

Come si vede tra 5 anni?

Ho 57 anni, mi vedo con un’azienda ancora più internazionalizzata e managerializzata. Sto puntando alla creazione di una leadership diffusa; è nato un progetto, GMT Gualini Management Team, un gruppo di manager che condividono con l’imprenditore le scelte più importanti dell’azienda. Tra 5 anni vorrei che il GMT fosse consolidato e in grado di guidare l’azienda, anche a prescindere da me pur nel solco dei valori e della strategia dell’imprenditore.

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