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La recensione

“Hollywood”: razzismo, pregiudizi e tanta voglia di cambiare il mondo

Serie che ci porterà dietro le quinte di una Hollywood post seconda guerra mondiale in cui un piccolo manipolo di attori, registi e sceneggiatori tenterà di stravolgere il cinema

Titolo: Hollywood
Regia: Ryan Murphy
Interpreti: David Corenswet, Jeremy Pope, Jim Parsons, Samara Weaving, Darren Criss, Laura Harrier
Durata: 7 puntate da 50’ circa
Dove vederlo: Netflix
Valutazione: ****

Gli anni ‘50 sono definiti da molti critici come la “golden age” del cinema americano. Hollywood arrivò ai suoi massimi splendori, in sala davano capolavori senza tempo come “Orizzonti di Gloria”, “La Valle dell’Eden” o “Il Gigante” e chiunque desiderava ardentemente sfondare nel mondo delle pellicole di celluloide. Tale business aveva però dei lati oscuri di cui molti volutamente non parlano: rispecchiando quella che era la mentalità del tempo infatti sui set troppo spesso regnavano incontrastati il razzismo, la xenofobia, la misoginia e l’omofobia.

“Hollywood” di Ryan Murphy vuole raccontare proprio di questo lato del periodo d’oro del cinema americano, dipingendo dettagliatamente un quadro ironico, schietto e coraggioso di un mondo di cui, per certi versi, non siamo ancora riusciti a liberarci.

La trama è semplice: la serie si apre raccontandoci la storia di Jack Castello (David Corenswet), un ex soldato che cerca disperatamente di sfondare nel mondo del cinema dopo che la guerra è terminata. A causa di un talento scarso e di mancanza di agganci Jack non riesce però ad aggiudicarsi alcun ruolo di rilievo e per questo è costretto a fare il gigolò in attesa dell’occasione giusta. Alla storia dell’ex soldato si intrecceranno quella dello sceneggiatore Archie Coleman (Jeremy Pope), degli attori Rock Hudson (Jake Picking), Camille Washington (Laura Harrier), Claire Wood (Samara Weaving) e del regista Raymond Ainsley (Darren Criss), tutti accomunati da un solo obbiettivo: entrare nella storia del cinema, non considerando che per farlo sarebbe stato necessario cambiarla.

Hollywood
La locandina della serie

Il fine della compagnia sarà quello di portare sul grande schermo la storia tragica dell’attrice Peg Wilson, morta suicida dopo essersi lanciata dalla scritta “Hollywood”, stravolgendo nel contempo le ferree regole per cui, per esempio, gli afroamericani non potevano essere protagonisti di alcun film o gli omosessuali dichiarati non potevano nemmeno avvicinarsi ai set.

Gli ostacoli, le minacce e gli ostracismi saranno all’ordine del giorno ma con determinazione, forza ed un pizzico di incoscienza poche persone cercheranno di demolire e ricostruire in un colpo solo un mondo le cui componenti fondamentali sono il machismo, la prevaricazione sul più debole e la disparità di genere.

L’opera di Ryan Murphy risulta nel complesso come un ottimo tentativo di portare in scena un dramma leggero dal retrogusto comico, in cui le due tonalità si dividono la scena al 50 e 50, capace di far ridere e di dare una fortissima spallata a tutti quei pregiudizi che per decenni hanno causato danni e sofferenze. Amalgamare sapientemente la finzione scenica con elementi esistenti, visibili in personaggi reali come Rock Hudson o Hattie McDaniel, fa di “Hollywood” un’opera dalla notevole caratura artistica, capace di celebrare e condannare contemporaneamente un tempo passato il cui eco è ancora visibile ai giorni nostri e di ricordare al pubblico quanto il cinema rappresenti un potente mezzo per analizzare con occhio critico (a suon di jazz anni ‘50, auto d’epoca ed attori mastodontici) i caratteri socio-culturali di un’epoca imprescindibile per la storia della filmografia.

Perché in fondo, se anche il cinema non potesse cambiare la società, le persone coraggiose possono e non devono mai dimenticarselo.

Battuta migliore: “Voglio andare a Dreamland”

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