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Il ricordo

Il mondo ha perso lo sguardo ostinatamente anticonformista di Philippe Daverio

Poligrafo controcorrente, infischiandosene delle invidie dei critici duri e puri raccontava l’arte, la storia, la letteratura, la vita con gusto verace per i dettagli e ironia pungente ed eversiva di ogni certezza ed etichetta.

Philippe Daverio è stato un intellettuale eccentrico e cosmopolita, per nascita e per vocazione, capace – per dirla con uno dei suoi migliori titoli – di guardar lontano e di veder vicino.

Poliglotta mattatore delle arti, divulgatore appassionato di cultura, ha saputo raccontare la storia dell’arte fuori dalle accademie, lontano dall’erudizione archivistica e dallo specialismo a oltranza. Poligrafo controcorrente, infischiandosene delle invidie dei critici duri e puri raccontava l’arte, la storia, la letteratura, la vita con gusto verace per i dettagli e ironia pungente ed eversiva di ogni certezza ed etichetta.

Raggiungendo così il pubblico più vasto, anche chi con l’arte ha poco a che fare. Senza per questo impoverire i contenuti, semplicemente guardando con occhio diverso, tale da proporre in modo non complicato discorsi complessi.

Innamorato di Milano, a cui non risparmiava critiche feroci (“Milano non è una bella città, perché non è curata, è caotica, non ha armonia. E pensare che era bellissima, una delle più belle città d’Italia. È stata ed è terra di scorrerie per gli avidi, che messi insieme non producono niente di bello”), sapeva raccontare l’Italia e l’Europa con una passione e un amore contagiosi, con confronti inediti e mai scontati.

Basta leggere l’introduzione alla sua ultima, affascinante fatica “Racconto dell’arte occidentale – dai Greci alla Pop Art”, uscito a luglio per Solferino: “Tra l’epico racconto del cavallo di Troia e il successivo viaggio di Ulisse, il quale secondo Dante Alighieri giunse oltre le colonne d’Ercole fino alle sponde misteriose dell’Africa centrale, e l’epica domestica quanto esoterica dell’Ulisse di James Joyce, passano tre millenni. Fra la morte in Croce di Gesù e l’elezione al Soglio Pontificio di papa Francesco ne passano due. Jorges Luis Borges sosteneva che tutti i romanzi successivi altro non sono che ricami attorno a queste due narrazioni, le gesta di Odisseo e la crocifissione di Cristo”.

Con la sua straordinaria capacità di unire passato e presente Daverio tesse la trama multiforme della storia europea e del nostro “caleidoscopio etnologico”, perlustra le strade dell’Occidente che dalla Mesopotamia, dall’Egitto, dalla Grecia e da Roma portano fino ad oggi “fra dèi dimenticati e un Dio unico” e approda all’Europa di questi giorni, che “dopo la crisi del Coronavirus sta scoprendo la sua necessaria solidarietà e ridando valore alla Caritas, un dettame delle cultura cristiana sin dai suoi primordi, ma pure un termine che già piaceva a Cicerone e a Seneca”.

“I secoli s’infilano e si sommano” commenta lo studioso raccontando la cultura europea come un crogiolo “che si spera possa rimanere tuttora in ebollizione”. Una storia fatta di differenze “questo lungo periodo di tre millenni che lega il sole di Akhenaton (ndr. faraone autore di un Inno al Sole) al sole che appare dietro al Cristo risorto di Matthias Grunewald (ndr. tavola lignea del 1515, in Alsazia) in un percorso innegabilmente caotico, ma che al contempo sembra essere il fiume carsico della nostra cultura occidentale”.

In questa sua ultima, enciclopedica, opera Philippe Daverio ci propone l’ennesimo esercizio di curiosità di un sincero innamorato del bello e di un beffardo investigatore dell’irregolare. Un insieme magmatico di riflessioni, intrise del suo arguto spirito milanese-alsaziano, sul vasto patrimonio comune europeo, “nato dalle ceneri del mondo antico e plasmato dalle nostre fortune come dai nostri conflitti”. Da Giotto a Duchamp, passando per Raffaello, Bernini, Monet, Modigliani, ma anche da Sant’Agostino a Karl Marx, da Platone a Sigmund Freud, senza dimenticare musicisti, sacerdoti, mecenati, capitani di ventura, carbonari, giacobini. Attraversando, strada facendo, tutti i mood, dagli entusiasmi dionisiaci al mal de vivre del Novecento.

È un flusso di suggestioni e rimandi disegnato col suo taglio inconfondibile, a cerchi che si aprono senza mai chiudersi, che ci fa sentire eredi e partecipi di una Storia intricata ma indissolubile, che va dall’Egeo dei Pelasgi pre-ellenici al Mediterraneo della pax americana post seconda guerra mondiale.

Questa straordinaria capacità di farsi capire, di unire passato e presente, di creare relazioni tra cibo e pittura, tra musica e politica, tra vino e story telling, lo ha reso popolarissimo in tv, anche per quel suo modo irresistibile di guardare sempre in macchina con sguardo ammiccante e sagace. Come nelle puntate di “Passepartout” (in onda dal 2001 al 2011 su Rai3), in cui stagliava il suo primissimo piano, con effetto di complicità senza uguali, sullo sfondo di pagine cancellate dall’artista Emilio Isgrò. Uno sguardo ostinatamente anticonformista, che lo portò anche al centro di polemiche, per lo più risolte con il sorriso.

Resta, documentata da una bibliografia vasta e varia, la sua appassionata visione della vita e del sapere intrisa di eleganza, cultura, umorismo. Uno stile irripetibile, di cui nel ventaglio di blandi format culturali che ci assediano, già sentiamo la mancanza.

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