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L'intervista

Maurizio Donadoni: “Il Testori che porto a teatro, metafora dell’Italia che gioca sporco”

Chiacchierata con l’artista bergamasco, con quarant’anni di carriera tra teatro, cinema e televisione, che porta in scena “Il Dio di Roserio” al Teatro Nuovo di Treviglio giovedì 27 agosto nell'ambito del DeSidera Festival

Una semplice intervista si è trasformata in una riflessione seria e profonda sulla vita, sulla società e sull’individuo. Non poteva essere altrimenti quando si ha a che fare con Maurizio Donadoni, uomo di grande cultura e spessore, prima ancora che attore.

L’artista bergamasco, con quarant’anni di carriera tra teatro, cinema e televisione, porterà in scena “Il Dio di Roserio” al Teatro Nuovo di Treviglio giovedì 27 agosto nell’ambito del DeSidera Festival. Lo spettacolo, o meglio – come l’attore stesso ci tiene a precisare – l’esperienza teatrale sarà il racconto dell’omonimo romanzo breve di Giovanni Testori.

Nella storia del protagonista, Dante Pessina, il “dio di Roserio”, ciclista emergente che sogna la vittoria e il successo, e del suo gregario, Sergio Consonni, si cela la metafora dell’Italia del Dopoguerra e del bivio pitagorico al quale è stata chiamata a rispondere. Nella scelta tra il giusto e l’ingiusto, tra il difficile, guadagnato con fatica ma onestamente, e il facile, attraente tanto quanto pericoloso, sta la metaforica di una nazione, di una società e di ognuno di noi.

“Perché il bivio ci sarà sempre”, spiega Donadoni, saremo sempre chiamati a scegliere tra la realizzazione raggiunta con sacrificio e il guadagno facile e veloce. Il teatro, oggi più che mai, è la scuola di vita che può insegnarci a scegliere correttamente.

Maurizio, ci parli dello spettacolo che porterà in scena al Teatro Nuovo di Treviglio…

Per prima cosa, dobbiamo ripensare al concetto di spettacolo. Non voglio partire alla lontana, ma è un dovere morale soffermarsi su che cosa significhi fare spettacolo da vivo. Ora c’è una cesura evidente, resa esplicita dall’emergenza sanitaria, che distingue tutto quello che si può fare digitalmente, stando comodamente a casa seduti davanti a uno schermo, e tutto quello che si può fare dal vivo, uscendo di casa. È il momento croce sopra la parola “spettacolo”, non esiste più. Ora c’è solo una “esperienza dal vivo” che coinvolge sia chi guarda e sia l’attore, o meglio, l’attante, colui che fa da tramite tra un qualcosa da raccontare e le persone che ascoltano. Questo è una premessa generale, che deve essere fatta. Perché se ci illudiamo che potremo fare spettacolo come si faceva prima, prima della pandemia, perdiamo una grande occasione.

Quale è quindi l’origine di questa esperienza teatrale?

Il racconto che farò è l’interpretazione di “Il Dio di Roserio”, romanzo breve di Giovanni Testori. Si tratta di un racconto breve dello scrittore milanese, molto amato anche da Pasolini. C’è sempre stato un legame, un parallelismo tra i due che ci tengo a sottolineare. L’uno amava forsennatamente il ciclismo, l’altro il calcio. Non è un caso che questi due scrittori fossero così attaccati all’agonismo, in cui abbiamo il concetto di agonia, di sofferenza. Il confronto tra la vita e la morte, tra quello che resta e quello che passa. E alla fine l’unica che resta è lo scorrere. Questa dinamica tra morte e vita, erosa e thanatos è la base fondante di tutta l’arte.

Da dove prende avvio la vicenda?

Il Dio di Roserio”, scritto all’inizio degli anni ’50, racconta la storia di due ragazzi, due ciclisti di dilettanti. Si tratta di Dante Pessina, un campioncino in erba, che però ha i numeri per raggiungere la vittoria e che per questo viene notato. L’altro protagonista è il suo gregario, Sergio Consonni, ha un anno di meno, è più piccolo, bravo ma non campione come Pessina, che era soprannominato chiamato il “Dio di Roserio”.

Qual è lo snodo della vicenda?

Pessina deve vincere tra gare di fila per poter entrare nel mondo dell’agonismo. Alla prima di queste gare lui si sente male. Il gregario, vedendolo in difficoltà e volendolo aiutare, comincia a tirare la corsa, ma Pessina pensa che lo voglia fregare e prendere il suo posto. Allora in una curva, fuori dagli occhi di tutti, lo butta fuori strada. Consonni ha così un incidente che gli causa una commozione cerebrale, da cui non si riprenderà mai più e non sarà più lo stesso. Pessina, resosi conto che l’amico non è in grado di ricordare l’accaduto, decide di mantenere il segreto”

Pessina arriva quindi al successo giocando sporco.

Esatto. Questa è una ben riuscita profezia sull’Italia di quel tempo che, uscita da poco anni dalla guerra, sperava nel boom economico. In quel momento l’Italia era davanti a un bivio pitagorico: strada in salita, più difficile ma virtuosa, e strada in discesa, più facile, lastricata di cattive intenzioni, verso la perdizione. Detto altrimenti, la scelta era tra progresso e sviluppo. L’Italia optò per la seconda, lo sviluppo indiscriminato che ha portato con sé molti disastri, come sappiamo.

La storia del giovane ciclista è quindi una metafora dell’Italia del Dopoguerra?

Si, è così. La storia di Pessina ricalca quello che è stato il boom economico italiano, i suoi rischi e le sue conseguenze. Una storia in cui ad andare avanti sono solo i vincenti, osannati, a discapito dei perdenti, totalmente dimenticati. L’ammonimento di Testori è valido anche oggi, dove la situazione, secondo me, è diventa ancora più difficile. Le divisioni tra ricchezze e povertà sono diventate ancore più estreme, dove i ricchi sono ultraricchi, una classe media sterminata e poi, tra gli ultimi, i poverissimi. Bisognerebbe quindi riflettere su cosa significa essere umani oggi, per cercare di andare avanti tutti insieme.

Il clima che traspare da questa esperienza teatrale racconta una Italia del passato, che però si adatta alla vita dei giovani di oggi, costretti molte volte a sgomitare per assicurarsi un posto nel mondo.

Il bivio pitagorico ci sarà sempre nella vita. Sta al singolo decidere, scegliere la cosa giusta. Uno deve rendersi conto del periodo in cui si è nato, in base al momento può ambire ad alcune cose piuttosto che ad altre. Rispetti ai miei tempi, oggi ci sono tante, tantissime possibilità. Il cinema è una prova di questo. Una volta per fare un film ci voleva la troupe, le macchine da presa che pesavano almeno trenta chili. Oggi ci possiamo esprimere cin un cellulare, un mezzo tecnico che pone certamente dei problemi ma che offre infinite possibilità. Ovviamente poi c’è un paradosso. Con i mezzi che la tecnologia ci offre posso decidere di comunicare la cultura, l’arte, i valori oppure posso decidere di filmare una ruota che schiaccia un cocomero e fare quindici milioni di visualizzazioni online. Il paradosso è proprio questo corsa verso il basso, in cui la parola è diventata solo un commento all’immagine, un rumore di fondo dove quello che conta è solo il video.

Questo è il paradosso dei nostri tempi. Il compito del teatro è rieducare alla scelta giusta nel bivio e al valore della parola?

Il teatro è fondamentale perché parla attraverso il copro, la parola, l’odore, tutto quanto non è digitalizzabile. Questa dimensione analogica deve essere in grado di dare una linfa all’apprendimento, all’apprezzare la vicinanza reale, fisica all’essere umano che ti sta comunicando qualcosa. Serve il ritorno al senso primitivo dell’essere umano, che non è di certo un flusso di dati incontrollabile. La capacità digitale, questa “protesi” che talvolta aumenta la capacità di comprensione, ma diminuisce quella di immaginazione, deve convivere con quella analogica. Il senso del teatro è quindi la resistenza, sacra e folle allo stesso, dell’uomo del passato a quello del futuro. Ma intanto non buttiamo via Socrate o Shakespeare, non rinunciamo all’opera del nostro piombo in oro, alla trasformazione di noi stessi da materia grezza a raffinata.

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