L'intervista

Le luci di Daniel Buren: “Una danza colorata, segno di speranza per Bergamo” fotogallery

In occasione dell’evento estivo dell’arte a Bergamo “Illuminare lo spazio, lavori in situ e situati”, abbiamo intervistato l’artista francese che, non avendo presenziato all’inaugurazione, coglie questa opportunità per parlare ai bergamaschi del suo lavoro.

Le geometrie di luce di Daniel Buren scandiscono la grande aula della Sala delle Capriate in Palazzo della Ragione destando la curiosità dei bergamaschi e dei turisti che visitano e scoprono la città vecchia.

In occasione dell’evento estivo dell’arte a Bergamo “Illuminare lo spazio, lavori in situ e situati”, abbiamo intervistato l’artista francese che, non avendo presenziato all’inaugurazione, coglie questa opportunità per parlare ai bergamaschi del suo lavoro.

Le sue opere prediligono gli spazi aperti, mentre i musei in un certo senso le vanno stretti. Come ha vissuto la proposta di questo spazio espositivo chiuso?

Innanzitutto, ogni tipo di spazio mi interessa, interno, esterno, piccolo, grande, eccetera. La ragione di questo eclettismo trova le sue radici nella filosofia del mio lavoro da 55 anni. Il lavoro in situ, secondo come lo intendo e definisco da sempre (anche prima che qualsiasi concetto su questa questione esistesse) implica il luogo come aggancio iniziale, essenziale e indispensabile alla collocazione dell’opera.

La possibilità di ricchezza, di sorpresa delle opere in queste condizioni sarà moltiplicata per la semplice ragione che, diversificando i luoghi d’esposizione e a condizione di essere ricettivi a ciò che essi inducono, le opere prodotte hanno la potenzialità di essere ogni volta diverse le une dalle altre, come le migliaia di spazi possibili di accoglienza che si presenteranno. Ecco perché mi sento a priori altrettanto attento e interessato a un nuovo luogo aperto o a un luogo chiuso, grande o piccolo che sia.

Come ha scelto l’alfabeto cromatico per questo contenitore storico così delicato e ricco di suggestioni?

Le opere collocate a Bergamo sono state confezionate nel 2013, per cui senza alcuna previsione di dove sarebbero state presentate un giorno. I colori utilizzati sono colori-base (la scelta d’origine è limitata) e la tecnica (illuminazione a fibre ottiche con i led bianco puro) ci dà una sorta di omogeneizzazione cromatica dell’insieme. Tutti i rapporti visuali che si legano in rapporto al luogo / ricettacolo sono il risultato del caso.

In questi lavori ha utilizzato materiali speciali a fibre ottiche. Che cosa la cattura di questo mezzo di luce?

Ho cominciato a utilizzare questo materiale a partire dalla sua invenzione, in seguito alla domanda dei responsabili della manifattura Brochier Technologies di Lione, che produce questi tessuti, che mi proposero d’utilizzare questo nuovo tipo di tessitura. Mi hanno aperto i loro atelier e ho fabbricato immediatamente qualche prototipo. Il risultato mi è sembrato subito convincente e soprattutto molto ricco di possibilità. Ho dunque accettato questa sfida e ci lavoro ancora oggi, dopo quindici anni.

Sono particolarmente interessato al fatto che il più piccolo centimetro quadrato porta sempre la sua propria luce e tutta la superficie è definita dalla sua illuminazione. Per esempio, si può mettere tutto il tessuto nell’acqua (ad eccezione della sorgente luminosa, i led) e la sua luce continuerà a diffondersi senza problema e senza rischio.

Causa pandemia, non è venuto di persona a Bergamo ad allestire lo spazio. Come si è approcciato, quindi, allo spazio in fase progettuale?

È stata una esperienza interessante benché rischiosa. Intanto bisogna sapere che, anche se conoscevo già Bergamo da molti anni, non ero mai stato in questo museo. Non avevo dunque alcuna idea degli spazi in generale e meno ancora della sala che mi era offerta. Dunque per me è stata una complicazione esemplare! Ho domandato più documenti possibili (piani, immagini, film) del luogo in questione e mi sono messo a lavorare con tutti questi elementi sapendo per esperienza che gli aspetti della sala (malgrado la qualità dei documenti ricevuti) mi sarebbero sfuggiti completamente.

Per esempio, quale era la sensazione della luce naturale che entrava nel luogo? Questa impossibilità tecnica di vedere la luce naturale con i miei occhi mi ha condotto a tentare, fin dall’inizio, di eliminarla nella misura del possibile. Questa sottrazione, se si può dire, mi è stata dunque dettata da un elemento molto importante ai miei occhi ma che non avevo alcun mezzo di testare nel suo giusto valore in tutte le ore della giornata e mi ha rafforzato nell’idea di utilizzare un lavoro i cui elementi fossero auto-illuminanti. Come vedete si tratta di una delle caratteristiche del lavoro in situ. Non potendo analizzare uno degli aspetti del luogo, sono stato obbligato ad adottare una soluzione cruciale per l’intera esposizione: rimuovere tutte le fonti di luce naturale – cosa che non faccio generalmente mai.

L’altro elemento interessante è stato scoprire la struttura costruita in questa grande sala d’esposizione al fine di agganciare dei proiettori. Le sue forme (una serie di esagoni) e la sua altezza in rapporto al suolo, mi avrebbero permesso di servirmene per attaccare in una certa maniera le mie “illuminazioni”, ossia i tessuti in fibre ottiche. Tenuto conto delle misure date dalle mappe, mi sono reso conto che si poteva senza problema sovrapporre due opere di 2.30 m di altezza ognuna su due livelli. Una metà sospesa, con la parte bassa rasente il suolo, e l’altra metà sospesa ugualmente, ma agganciata a 2.30 m da terra. Come ci si può rendere conto, le fibre ottiche funzionano in dittici dello stesso colore, per cui il disegno dell’una è il negativo dell’altra o viceversa.
Infine, entrando in questa sala, tutti questi 24 pezzi in fibre ottiche sono presentati in ordine alfabetico italiano da sinistra a destra. Il visitatore può entrare e percorrere l’esposizione come gli sembra meglio, seguendo questo tracciato alfabetico o senza tenerne conto.

È corretto dire che queste tele, anche grazie all’effetto luminoso, oltre che giocare con i colori, giocano con l’idea di positivo/negativo? Che cosa è l’ombra e che cosa è la luce, per lei che di questi effetti è un maestro?

È del tutto corretto, perché tutti questi elementi sono costituiti da coppie di cui un elemento è il negativo dell’altro. Qui una delle caratteristiche delle tele in fibre ottiche è di illuminare e così di diffondere la luce ma, come avete notato, di non propagare altro che poche ombre. Ogni elemento luminoso si distingue da sé senza fare ombra al suo vicino, il che ha per effetto di tagliare in modo abbastanza netto lo spazio circostante altrimenti molto scuro. Abbiamo giusto lasciato illuminati in maniera molto dolce e bassa alcuni affreschi che si trovano nella stessa sala. Più che l’ombra e la luce, qui si tratta piuttosto del colore e del nero.

In questo momento di emergenza sanitaria non ancora conclusa, che messaggio vuole affidare alla sua arte per la città di Bergamo, segnata pesantemente dalla pandemia? Oppure l’idea stessa di un messaggio e di un significato è una forzatura?

A priori io non sono un partigiano di un’arte che consegna dei messaggi. Se in quello che faccio qualcuno ne trova, dipende da me. Direi per contro che, per quanto il luogo lo permette (cioè l’architettura, il suo ambiente, la gente che vi abita o che vi lavora – o entrambe le cose – la storia che si può conoscere, il tema dell’esposizione se ce n’é uno…) si può allestire un lavoro specifico.

C’è anche, ben più complesso, più difficile da descrivere ma altrettanto pregnante, il contesto politico prodotto dalla società in cui questo lavoro si trova, gli aspetti imponderabili di questo momento preciso in cui l’opera è accolta dal pubblico e così via… tutti elementi che costituiscono, ugualmente al contesto fisico, l’opera in questione. Dunque oggi, a Bergamo, la pandemia che ha appena finito di imperversare – e che non è terminata – non può certamente essere considerata in misura trascurabile per ciò che può significare il lavoro che presento qui. È parte intrinseca di ciò che propongo. In questo sta uno dei parametri tra i più determinanti (e spesso tra i più astratti) che costituiscono la particolarità del lavoro in situ: intendo dire la sua estrema sensibilità, anche fragilità, verso l’ambiente circostante, sia fisico che visivo, mentale e politico.

Ho già sentito alcuni commenti sulla mia esposizione per GAMeC. Per esempio, certi visitatori percepiscono una certa gioia espressa nel lavoro proposto, ci vedono una sorta di “danza colorata”. Se si segue questo sentimento andando oltre, allora si può interpretare tale lavoro come un messaggio di speranza in vista di giorni migliori o ancora come l’espressione della volontà di vivere, della forza e di una certa gioia del vivere, con il colore che infine emerge dalle tenebre.

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