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L'analisi

La tragedia di Beirut, il fallimento di uno Stato

Numerosi aspetti rimangono assolutamente poco chiari, ma gli appassionati di complotti geopolitici e scenari apocalittici potrebbero rimanere delusi: alla fine, dietro la spaventosa deflagrazione di Beirut potrebbe celarsi la banalità del male, la banalità del collasso di uno Stato allo sbando.

La tragedia nel porto di Beirut suscita interrogativi legittimi e fantasiose ipotesi di geopolitica al cucchiaio. Non è mancata neppure la malafede: sono ancora in corso le operazioni per recuperare dalle macerie i corpi di decine di lavoratori del porto e di abitanti del quartiere di San Michele, ma ieri notte erano già alacremente all’opera i dispensatori e le dispensatrici di facili certezze, già pronti a puntare il dito contro Israele, contro il partito sciita Hezbollah, o qualsiasi altro oggetto delle proprie antipatie.

Una commissione interna d’inchiesta dovrebbe presentare un rapporto nel giro di cinque giorni. Per adesso, a ventiquattro ore dalla spaventosa esplosione che ha distrutto il porto di Beirut, sembra essere accreditata l’ipotesi dello scoppio di 2700 tonnellate di nitrato di ammonio, sequestrate nel 2014 da una nave diretta in Africa e poi irresponsabilmente stoccate in uno dei depositi, nell’attesa di una vendita del materiale che non è mai più avvenuta.

Resta da spiegare cosa abbia innescato l’incendio che ha prodotto la nube rossastra prima dello scoppio principale, quello così simile a un fungo atomico e che ha rilasciato una potenza tale da distruggere l’intero fronte del porto e una buona parte dei quartieri più vicini.

Il porto di Beirut è dal 1840 il principale punto di connessione commerciale tra il Medio Oriente e l’Europa. Non ha perso questo status neppure con tutte le vicissitudini che hanno sconvolto la regione, e il Libano in particolare, nei decenni successivi. I confini con Israele sono chiusi ermeticamente da fili spinati, campi minati e veicoli blindati. I valichi di frontiera con la Siria sono riaperti, ma la situazione nel paese vicino è ancora lontana dalla pacificazione. Il porto di Beirut è dunque, insieme all’aeroporto, il principale punto di uscita e di ingresso nel paese. È soprattutto il punto in cui entrano le derrate alimentari, le materie prime e i medicinali che in questi mesi tengono letteralmente in vita un paese allo stremo. Anche in un contesto particolare come quello libanese, viene difficile pensare che uno dei partiti o delle milizie libanesi, qualunque sia il giudizio che se ne vuole dare, possa essere talmente irrazionale da sparare nella bombola d’ossigeno che assicura la precaria sopravvivenza del paese.

Come tutti i grandi porti globali, anche quello di Beirut è stato teatro di molte attività illecite: contrabbando, traffico di armi e soprattutto uno spettacolare volume di narcotraffico. Appare tuttavia grottesco descrivere il porto come una specie di Far West o di succursale del terrore, a meno di pensare che le imbarcazioni militari tedesche e italiane stiano in rada senza accorgersi di nulla. È questa una supposizione che manca di rispetto all’operato dell’UNIFIL, la forza delle Nazioni Unite che dal 2006 ha garantito la permanenza della tregua al confine tra Libano e Israele.

Nella mattina di mercoledì, con le macerie del porto ancora fumanti e l’entità della devastazione ormai chiaramente visibile, la rabbia della popolazione libanese si è indirizzata verso l’intera classe politica, accusata nella sua totalità di una clamorosa mancanza di responsabilità e incapacità di gestione. Il Libano vive dalla fine del 2006 in un completo stallo politico. I veti reciproci tra i diversi partiti, ciascuno dei quali si mantiene in vita grazie a sistemi clientelari (offerta di beni o posti di lavoro in cambio di consenso politico), hanno portato il Paese prima alla paralisi e poi alla rovina.

La grande tragedia libanese è plasticamente raffigurata dalle montagne di sacchi della spazzatura che si sono accatastate per mesi nell’estate del 2015, quando la chiusura di una discarica ha portato al collasso del sistema di raccolta dell’immondizia. Chiunque abbia vissuto in Libano sa bene delle interruzioni quotidiane programmate nell’erogazione dell’energia elettrica, che in alcune aree possono arrivare anche a più di dodici ore al giorno. Nelle settimane passate, le immagini di Beirut completamente al buio, a causa di una ulteriore diatriba tra enti pubblici e la compagnia elettrica EdL, hanno aggiunto un ulteriore tassello alla lenta implosione di quella che lo stereotipo definiva “la Svizzera del Medio Oriente”.

È, in effetti, il collasso del sistema bancario, ben prima degli effetti nefasti della pandemia di Covid-19, ad aver fatto schiantare il paese. Il castello di tassi di interesse molto alti, che consentiva di pompare liquidità (in dollari) nelle vene del sistema bancario libanese, finanziando il debito pubblico e tenendo artificiosamente fisso il tasso di cambio tra dollaro USA e lira libanese, è crollato definitivamente all’inizio di marzo, portando il governo a dichiarare il default.

Sono seguite settimane di tregenda: alcuni ospedali si sono trovati nella condizione di rifiutare le cure e licenziare il personale nel bel mezzo della pandemia, molte attività commerciali hanno deciso di abbassare definitivamente le saracinesche, mentre i negozi di generi alimentari hanno semplicemente smesso di aggiornare le etichette dei prezzi perché la spirale dell’iperinflazione non era più controllabile.

La classe media libanese, istruita, cosmopolita e brillante, che ha sempre rappresentato la vera risorsa del paese, ne è uscita distrutta, impossibilitata ad accedere ai propri risparmi bancari (congelati per impedire fughe di capitale quando ormai i grandi capitali si erano comunque già spostati) e costretta a pagare mutui e affitti in dollari mentre gli stipendi rimangono in lire. Nel giro di poche settimane, il tasso di cambio ufficiale di 1507 lire per un dollaro è crollato sul mercato nero a oltre 8000, facendo intravvedere lo spettro della fame anche al di fuori della quota di poveri e profughi presenti prima della crisi.

Il governo libanese, che proprio il giorno prima dell’esplosione aveva dovuto incamerare le dimissioni del ministro degli esteri, starebbe cercando in fretta e furia di riconvertire il porto di Tripoli (del Libano), che inizialmente doveva servire come base logistica per la ricostruzione della Siria, come nuovo punto di accesso per le materie prime, il cibo e i medicinali in Libano.

L’entità dei danni a Beirut rimane ancora da appurare, ma appare impossibile che un Paese in default e piena crisi economica abbia le risorse per la ricostruzione. Le istituzioni promettono giustizia, assicurando che i responsabili pagheranno per questa immane tragedia, ma la frammentazione della classe politica libanese e gli interessi delle oligarchie legate alla politica sono talmente radicati che è difficile intravvedere un cambio di rotta. La popolazione, nel frattempo, appare comprensibilmente traumatizzata. Molti, come veniva scritto pochi giorni prima dell’esplosione di martedì, non hanno nemmeno i soldi e le energie fisiche per scendere in strada e fare la rivoluzione.

Numerosi aspetti rimangono assolutamente poco chiari, ma gli appassionati di complotti geopolitici e scenari apocalittici potrebbero rimanere delusi: alla fine, dietro la spaventosa deflagrazione di Beirut potrebbe celarsi la banalità del male, la banalità del collasso di uno stato allo sbando.

*Docente universitario, esperto di Medioriente

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