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Il confronto

Covid19, trombosi e tumori: il punto con gli esperti di Fondazione Artet video

Giovedì 30 luglio in un webinar è stata affrontata la relazione tra “Covid19, trombosi e tumori” insieme a: Anna Falanga, Roberto Labianca, Andrea D’Alessio e Domenico Gerbasi

L’emergenza Coronavirus ha travolto il nostro Paese e la nostra città in modo drammatico, toccando profondamente la vita di ciascuno di noi.

I nostri medici, infermieri e operatori sanitari da subito sono scesi in trincea per far fronte a quest’emergenza, dando un forte segnale di solidarietà e spirito di servizio.
Al loro fianco, si sono prontamente attivati anche gli enti di ricerca scientifica, che hanno spinto sull’acceleratore della ricerca per tentare di fornire risposte e cure.

Fondazione Artet è tra questi enti. Una Onlus nata a Bergamo nel 2018 da un’idea di Roberta Sestini, presidente, Giovanna Bosatelli vicepresidente, ed Anna Falanga, responsabile scientifico, per svolgere attività di ricerca scientifica nel campo delle relazioni tra trombosi, emostasi e tumori e che in questa emergenza, in particolare, intende dare il proprio contributo di ricerca pensando soprattutto ai pazienti già fragili che necessitano di terapie antitrombotiche, antitumorali e trasfusionali e che contraggono il Coronavirus.

Giovedì 30 luglio in un webinar è stata affrontata la relazione tra “Covid19, trombosi e tumori” insieme a: Anna Falanga, Direttore della Divisione di Immunoematologia e Medicina trasfusionale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, Roberto Labianca, Direttore del Cancer Center dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, Direttore dell’Unità di Cure palliative e Hospice e Direttore del Dipartimento Interaziendale Oncologico della Provincia di Bergamo, Andrea D’Alessio, Responsabile della UO Medicina Interna e Oncologia del Policlinico San Marco di Zingonia-Gruppo San Donato e Domenico Gerbasi, Responsabile del Coordinamento della Breast Unit dell’A.S.S.T. Bergamo Est di Seriate.

Anna Falanga, Direttore della Divisione di Immunoematologia e Medicina trasfusionale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo

La fondazione sta sostenendo due importanti progetti della Divisione di Immunoematologia e Medicina trasfusionale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, di cui Anna Falanga è direttore. Di che progetti si tratta?
“La pericolosa relazione che si instaura tra infezioni virali e trombosi – ci spiega la professoressa – è da tempo scientificamente conosciuta. In questi mesi è purtroppo emerso che la trombosi e, nel peggiore dei casi, l’embolia polmonare, sono una frequente complicanza, e talora la causa di morte, nei pazienti affetti da Covid19. I pazienti ricoverati per Covid19 mostrano infatti un eccessivo stato di ipercoagulabilità e cioè una forte tendenza a formare coaguli nel sangue. Proprio per questo motivo, il nostro Centro di Emostasi e Trombosi ha aderito ad uno studio estensivo (o globale) della coagulazione in pazienti Covid19, un progetto di ricerca sulla coagulazione del sangue in pazienti affetti da Coronavirus”.

“Questo studio – continua Anna Falanga – prevede un monitoraggio continuo dei marcatori specifici di attivazione della coagulazione per identificare, in questi pazienti, possibili fattori predittivi di trombosi che ci possono aiutare nella ricerca di nuove strategie di prevenzione.
I Medici e biologi ricercatori del nostro Centro sono infatti coinvolti in prima linea nella gestione di queste complicanze e nella gestione dei pazienti che già cronicamente in terapia con farmaci anticoagulanti sono esposti a queste infezioni. La ricerca che si sta effettuando, come Immunoematologia e Medicina trasfusionale, insieme anche alla Fondazione Artet, ha come obiettivo quello di capire come e perché gli eventi trombotici si sono verificati, per esempio su pazienti Covid che erano a rischio perché portatori di altre patologie, quindi con condizioni infiammatorie in atto e potenziate dal Covid, ma anche e soprattutto in assenza di altre comorbilità e su quali componenti il nuovo coronavirus agisce come possibile agente procoagulante”.

“Il secondo studio, invece, vede l’utilizzo del plasma iperimmune. Sempre più evidenze stanno infatti mostrando che l’uso del plasma dei pazienti convalescenti da Covid-19, se infuso in pazienti critici affetti da questa infezione, determinerebbe un rapido miglioramento delle loro condizioni. Il primo obiettivo di questo progetto – spiega Anna Falanga – è capire se questo plasma può aiutare i malati più gravi a guarire, il secondo è capire se può aiutare chi viene colpito da Covid-19 in forma lieve a non aggravarsi. Questo tipo di terapia potrebbe essere molto utile in pazienti fragili, come quelli che soffrono o hanno sofferto anche di altre malattie, o in famigliari e ai conviventi che possono essere stati esposti al virus evitando loro di ammalarsi. La terapia con plasma iperimmune potrebbe essere un’arma veramente efficace e che potrebbe fare da ponte per proteggere le persone infette o che si infetteranno nei prossimi mesi prima dell’arrivò dei vaccini”.
Nonostante i grandi passi avanti fatti di giorno in giorno, il lavoro da fare per poter dare delle risposte concrete e fare chiarezza su questo nuovo Coronavirus è ancora tanto”.

Approfondiamo alcuni aspetti di questa emergenza, avvalendoci dell’esperienza di due esperti, medici specialisti, membri del comitato scientifico della Fondazione Artet.

Dottor Andrea D’Alessio, Responsabile della UO Medicina Interna e Oncologia del Policlinico San Marco di Zingonia-Gruppo San Donato, perché si definisce la malattia da Coronavirus una malattia sistemica?

La malattia da Coronavirus è una malattia sistemica, nel senso che coinvolge l’intero organismo.
Uno degli errori più comuni è quello di focalizzarsi sul danno che determina su un singolo organo, commettendo l’errore di evidenziare un unico aspetto della malattia: la polmonite interstiziale, la coagulopatia, la miocardite e lo scompenso cardiaco, l’insufficienza renale .
La malattia ha due fasi: una virale polmonare ed una seconda fase sistemica.
Il virus, nei primi dieci giorni, inizialmente si localizza nell’epitelio respiratorio nelle vie aeree superiori, dove avviene il contagio ed avvia la sua replicazione. Da qui i sintomi che conosciamo tutti quali raffreddore, associato o meno a congiuntivite, difficoltà nel riconoscere gli odori (anosmia), febbre. L’epitelio respiratorio è unico dalle prime vie respiratorie (naso e seni nasali), fino ai bronchioli terminali, prima degli alveoli. Il virus piano piano colonizza l’epitelio respiratorio discendendo ai polmoni. Questo avviene in misura variabile, nella maggioranza dei soggetti. Inizia così la tosse e la mancanza di fiato, definita come dispnea. Se tutto si esaurisse con la fase virale, guariremmo più o meno tutti, come avviene per altre forme influenzali e nei soggetti più giovani.
Una percentuale alta di soggetti progredisce verso una forma sistemica multiorganica, caratterizzata da insufficienza respiratoria, cardiaca, renale, tromboembolica, ischemica cerebrale. Tale sindone porta a morte rapidamente una larga fetta di pazienti o li condannava a luoghi periodi di soggiorno in terapia intensiva, intubati. Il motivo di tutto questo deriva dal fatto che il Coronavisrus, o COVID -19, determina una severa reazione infiammatoria definita scientificamente “sindrome da rilascio di citochine”. Questa sindrome si automantiene e determina danni in numerosi organi. In particolare i macrofagi, cellule specializzate nel presentare gli antigeni ( proteine del virus che stimoliamo i globuli bianchi a produrre anticorpi ) e hanno anche il compito di mangiare le cellule morte uccise dal virus, impazziscono e rilasciano in modo spropositato le citochine (interleukine e interferone). Nei polmoni gli alveoli si riempiono di macrofagi, alcuni linfociti e tessuto morto, mentre dalla parte vascolare, si lesiona il tessuto dei vasi, l’endotelio, e determina la formazione di trombi. L’interstizio, impalcatura che sostiene alveoli e vasi si gonfia per l’infiammazione, ispessendosi. Non è più possibile lo scambio di ossigeno ed il soggetto è destinato a morire se non si interviene per tempo.
Il danno vascolare non è presente solo nei polmoni ma si diffonde al rene, al cuore, al fegato, all’intestino e al cervello, determinando quella sindrome sistemica multiorganica che può condurre a morte i pazienti. In genere l’incidenza è maggiore nei soggetti anziani, ma non è sempre così, potendo colpire anche pazienti più giovani.

In base ai dati da lei raccolti, quali sono le complicanze più frequenti dovute alla contrazione del virus?
Innanzitutto la sindrome respiratoria che porta alla necessità di ricoverare il paziente, in quanto i polmoni sono ripieni di essudati infiammatori che non permettono lo scambio dei gas. Però non è da sottovalutare il danno endoteliale, cioè quel tessuto che riveste i vasi sanguini, che può causare sia trombosi polmonari, trombosi delle arterie cardiache con infarti del miocardio senza danno ateroscelortico, insufficienza cardiaca, ictus cerebrali e insufficienza renale.
Vi sono una serie di disturbi come dolori articolari o diffusi, eruzioni cutanee che derivano dal fatto che gli anticorpi che noi produciamo per bloccare inizialmente l’infezione, di classe IgM, possono precipitare ed infiammare cute e articolazioni.
Infine non è ben chiaro perché questo virus lasci una stanchezza enorme, chiamata astenia, che può durare anche settimane, rispetto ad una comune sindrome influenzale

Una volta superata la malattia, come reagisce il nostro organismo? Ci sono degli organi in particolare che ne risentono maggiormente?
Dipende dalla gravità della sindrome sistemica, e come il nostro organismo è stato colpito. Attualmente sono in corso molti studi scientifici per capire quali danni cronici abbia lasciato questa infezione. Sicuramente un danno polmonare potrà essere presente nei soggetti che hanno avuto una importante sindrome respiratoria e non sappiamo quanto queste lesioni possano cronicizzare. Per chi ha avuto una ischemia carica o cerebrale è chiaro che è stato lesionato un organo vitale con lenta possibilità di ripresa. Non sappiamo ancora se si possano sviluppare disturbi permanenti quali ipertensione arteriosa o insufficienza renale cronica. Nei soggetti con trombosi polmonari o periferiche è necessario seguire una terapia anticoagulante per almeno sei mesi od un anno.

Professor Roberto Labianca, Direttore del Cancer Center dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, Direttore dell’Unità di Cure palliative e Hospice e Direttore del Dipartimento Interaziendale Oncologico della Provincia di Bergamo.
Qual è il modo migliore di trattare e approcciare i pazienti oncologici positivi al coronavirus, e quali sono possono essere le conseguenze di contrazione del virus in questi pazienti.
La presenza di infezione da coronavirus nei pazienti neoplastici li rende senza dubbio ulteriormente fragili e compromessi e può rendere assai problematica la esecuzione di una adeguata terapia antitumorale. In letteratura medica stanno comparendo nelle ultime settimane numerose segnalazioni di aumentata e più grave incidenza di polmoniti interstiziali e/o di altre manifestazioni infettive dovute al virus nei pazienti oncologici, anche se non mancano anche osservazioni in direzione opposta. Riferendomi in particolare ai tumori dell’apparato digerente, che rappresentano il mio principale settore di interesse clinico e scientifico, non posso non notare che i pazienti corrono il concreto rischio di subire un rilevante ritardo nelle procedure diagnostiche e di screening e anche di vedere dilazionato il necessario intervento chirurgico nei confronti della neoplasia primitiva e/o di eventuali metastasi (ad esempio, al fegato o ai polmoni) tecnicamente operabili. Una volta che fosse indicata la chemioterapia (sia a scopo adiuvante, dopo intervento chirurgico macroscopicamente radicale, che in fase avanzata di malattia, quindi in presenza di metastasi e/o di interessamento loco-regionale non suscettibile di trattamento locale), è importante utilizzare terapie meno intensive di quelle abituali, meglio se per via orale, che includano farmaci poco tossici per il midollo osseo. Di particolare importanza sono ovviamente le misure di mitigazione del rischio comuni a tutti i pazienti che accedono all’ospedale (ridotta permanenza negli ambulatori, accurato triage, modalità di telemedicina…). Anche la durata del trattamento nella fase adiuvante può venire ridotta (ad esempio da 6 a 3 mesi) senza particolari timori di ricaduta, ovviamente qualora il paziente non si a elevato rischio, e nella stessa fase avanzata è ben noto che in molto casi sono possibili opportune pause terapeutiche.

Come il coronavirus influisce sull’andamento dei trattamenti oncologici?
E’ possibile un netto incremento del profilo infiammatorio (evidenziabile sia clinicamente che con opportune indagini di laboratorio) e il virus può determinare una profonda alterazione in senso tromboembolico che può associarsi all’aumentato rischio che i pazienti neoplastici già presentano a tale riguardo. Tutto ciò orienta in modo mirato la terapia dell’infezione virale e può influire anche su alcune importanti scelte strategiche di trattamento antitumorale.

I pazienti oncologici sono più a rischio degli altri?
Ci sono dei tipi di tumore che sono più a rischio rispetto ad altri in presenza di coronavirus. Noi banalmente pensiamo al tumore al polmone. Per rispondere a tali quesiti sono fondamentali le osservazioni epidemiologiche: per quanto riguarda in specifico i tumori del polmone, è in corso un vasto studio internazionale, disegnato e coordinato dall’Istituto Tumori di Milano, denominato TERAVOLT, al quale anche la nostra Oncologia Medica partecipa attivamente. Prima di trarre qualunque tipo di prematura conclusione, è indispensabile attendere il completamento del reclutamento e la accurata analisi dei dati.

Dottor Domenico Gerbasi, Responsabile del Coordinamento della Breast Unit dell’A.S.S.T. Bergamo Est di Seriate, lei si occupa soprattutto di pazienti oncologiche che necessitano di interventi al seno. Come questa epidemia ha influenzato il suo lavoro, come ha influito sul trattamento dei suoi pazienti, anche psicologicamente?
La pandemia SARS-COV19 è piombata sulle nostre vite alla fine dell’inverno scorso, paralizzandole. Improvvisamente nei pronto soccorso degli ospedali della nostra Azienda ASST Bergamo-Est, dalla fine di febbraio in poi e per i due mesi successivi, si sono contemporaneamente riversate centinaia, migliaia di persone con sintomatologia respiratoria ascrivibile all’infezione da Coronavirus: in pochi giorni tutti i reparti ospedalieri sono stati convertiti alla cura tempestiva dei pazienti Covid. Naturalmente ciò ha comportato l’immediata paralisi della macchina organizzativa ospedaliera come noi la conosciamo: il brusco stop ai ricoveri ordinari e agli interventi chirurgici programmati ha dato un fortissimo scossone ad intere categorie di pazienti che, purtroppo, attendevano con speranza le specifiche cure mediche necessarie. Stando ai numerosi racconti delle pazienti affette da tumore mammario ed in lista per intervento chirurgico, con cui ho cercato, come meglio ho potuto, di mantenere un contatto telefonico durante questi mesi, nella nostra realtà di Breast Unit (Unità di Senologia) aziendale, il fermo degli interventi chirurgici dedicati alla cura del tumore al seno ha avuto un impatto sicuramente potente sulla fragile psicologia di queste donne. Tutte le pazienti con cui ho avuto lunghi colloqui telefonici mi hanno però sempre stupito per la sensibilità e generosità dovute alla piena comprensione della gravissima situazione generale e per la delicatezza con cui comunque provavano a chiedere un po’ di attenzione, magari sottovoce. Ritrovarsi impotente, da chirurgo oncologo, a poter aiutare le mie pazienti di fronte ad una simile emergenza è stata per me un’esperienza davvero difficile e frustrante.
I vertici di Regione Lombardia hanno individuato per tutte le province lombarde degli HUB, Centri Oncologici di riferimento ubicati a Milano, naturalmente COVID-FREE, per poter far fronte almeno inizialmente ai casi più urgenti, cioè quelli che avrebbero visto compromettere seriamente e rapidamente il loro stato di salute senza un trattamento chirurgico tempestivo. Incaricato dalla Direzione, mi sono immediatamente messo in contatto con i colleghi dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano per creare un ponte di cura per le nostre pazienti. Con molta pazienza da parte di tutti, la sinergia professionale inter-provinciale messa in campo ha garantito, in piena emergenza Covid, un trattamento chirurgico tempestivo ed idoneo per queste pazienti oncologiche, grazie alla disponibilità e competenza professionale dei colleghi senologi di Milano con cui ho collaborato finora e che non finirò mai di ringraziare. Le pazienti coinvolte in questo delicato processo di cura inter-aziendale si sono dimostrate riconoscenti, si sono sentite prese in carico e mai abbandonate: un importantissimo obiettivo raggiunto, che ci riempie di soddisfazione.
Ora, fortunatamente, la stragrande maggioranza dei pazienti Covid sono stati dimessi sia dai reparti che dalle terapie intensive dei nostri ospedali e sono stati completati gli ultimi trattamenti di sanificazione dei nosocomi e la messa a punto dei percorsi diagnostico-terapeutici specifici ragionati, secondo le direttive degli organi preposti. Ciò ha permesso in breve tempo la ripresa in piena sicurezza di tutte le attività ospedaliere routinarie, compresa quella ambulatoriale e chirurgica oncologica-ricostruttiva mammaria che si rivolge notoriamente a persone colpite da un male subdolo, il tumore della mammella, che non dà quasi mai sintomi fisici ma indebolisce sicuramente la psiche e l’animo e laddove il fattore tempo resta un punto chiave da gestire con la massima attenzione.

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