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Il pezzo da giù

“Il mio Abruzzo, un gioiello in filigrana lavorato da mani sapienti e grezze” fotogallery

Un viaggio alla scoperta dell'Abruzzo più intimo e insolito: "Sulmona, bella e nobile, mi accompagna per le vie del paese e mi racconta la sua storia: fondata da Solimo, compagno di Enea, dopo la caduta di Troia, rimase sempre fedele a Roma combattendo Annibale".

Valentina Petrilli è una giovane docente di lingua italiana in una scuola bergamasca. È abruzzese e ha terminato gli studi all’Università di Bergamo. Ha scelto di vivere e lavorare in Bergamasca. È parte della famiglia di Bergamonews, dove ha svolto uno stage.

Durante il periodo del lockdown siamo sempre rimasti in contatto e memorabili furono gli arrostici abruzzesi preparati sul terrazzo di casa a Bergamo accompagnati da diverse bontà che arrivavano puntuali ogni settimana con “il pacco da giù”.

In queste settimane Valentina sta trascorrendo le vacanze in Abruzzo e a lei abbiamo chiesto di raccontarci questa estate dopo il lockdown. Quel desiderio di tornare alle proprie origini esploso nella reclusione per evitare la pandemia. Questo è il suo primo “pezzo da giù”: buona lettura.

BISOGNA ANDARE PER TORNARE

L’intercity delle 7:05 da Milano Centrale era appostato sul binario 17. Direzione Taranto.
Era sì un viaggio della speranza lungo 7 ore, che mi avrebbe riportato a casa, a quell’odore e a quella vista delle montagne, inconfondibili. Le distanze di sicurezza rendevano il vagone confortevole, senza schiamazzi e senza troppe distrazioni. Ognuno con il suo pensiero si dirigeva verso qualcosa e qualcuno, ognuno con e senza valigia andava altrove e questo mi dava tranquillità. Dopo mesi di internamento forzato, dopo una pandemia ancora non sconfitta, qualcuno timidamente aveva il coraggio di prendere un treno e lasciarsi alle spalle la solitudine generata ed esplosa con il Coronavirus.

Il treno, ultimo amico dei romantici, mi fece riflettere sul fatto che la bellezza italiana risiedesse tutta nella sua regionalità: ogni regione, a modo suo, dipinge un contributo importantissimo. Le distese colline emiliane poi il mare burrascoso e ciottoloso marchigiano e poi eccola lì, quella pineta unica che con il vento ondeggiava a tal punto che, ne ero sicura, c’avrei intravisto l’Ermione dannunziana. Sentivo il mare dentro, la luce si scagliava torrida nelle strade mangiate dal sale e sentivo la nostalgia irrompere nelle lacrime. Ecco l’Abruzzo, terra progenitrice di gente illustre e di gente povera, terra di montagne alte e severe, di tradizioni secolari che attraversano il mondo per unire proprio le genti illustri a quelle povere. Ad aspettarmi alla stazione di Pescara c’era l’odore forte della salsedine secca e il frinire rimbombante delle cicale. Ma un altro Abruzzo mi aspettava, come una mamma che attende sull’uscio di casa il figlio partito per la guerra. Era quello interno, quello cullato dal Gran Sasso e dalla Majella, l’Abruzzo dalla vegetazione folta e disordinata, quello delle chiese preromaniche e dei paesi dal carisma forte e immortale.

Bisogna andare via per tornare, bisogna perdersi sempre per potersi ritrovare. Così l’Abruzzo mi appare a questi occhi un gioiello in filigrana lavorato da mani sapienti e grezze. Passeggiando per l’antica e solenne Sulmona pare di non esserci mai stata, eppure è stata la città della mia istruzione adolescenziale. Quante volte ho percorso queste strade e quante volte non le ho sapute guardare. Decorazioni barocche avvolgono gli antichi palazzi ingialliti dal sole e dal tempo.

Le chiese, i campanili e i vicoli sono gelosamente sorvegliati da Ovidio.

Quanto ci si ferma davanti alla Chiesa e all’intero complesso della Santissima Annunziata le sensazioni tutte arrivano tra la gola e la bocca: la bellezza pervade la vista e l’intero monumento, imperterrito e forte, combatte nei secoli i numerosi terremoti che da sempre scuotono le genti abruzzesi. Nelle passeggiate del sabato mattina mi accorgo che il tempo in Abruzzo cammina più lentamente che altrove. I banchi del mercato sono ancora posti d’offerte e occasioni e con speranza quasi goliardica spero di ritrovare la zingara che tanti anni fa mi lesse la mano, ricca di fortuna e senza figli.

L’acquedotto di Manfredi di Svevia sorveglia la Majella e il Morrone e chiude piazza Garibaldi. La gente si saluta e si abbraccia, qualcuno indossa la mascherina, altri vi lasciano fuori il naso per respirare la calura estiva. Il profumo della porchetta calda arriva dritto allo stomaco e la pizza bianca di pane è appena sfornata. Intravedo vecchi professori e conoscenti, ci si bacia, ci si prende il caffè e improvvisamente ritorno ad appartenere a una comunità autentica e dignitosamente felice. Sulmona, bella e nobile, mi accompagna per le vie del paese e mi racconta la sua storia: fondata da Solimo, compagno di Enea, dopo la caduta di Troia, rimase sempre fedele a Roma combattendo Annibale.

La forza di un popolo è insita nelle sue vene anche dopo tanti secoli. Ovidio nei Tristia diceva “Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis, milia qui novies distat ab Urbe decem”.

Ed è proprio il senso di appartenenza che ci unisce alla terra nel momento della lontananza, ci definisce come esseri umani con una storia da difendere e tutelare.

valentina petrilli
Valentina Petrilli
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