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Rapporto unioncamere

Bergamo, ‘imprese rosa’ più forti del Covid: “Ora strumenti per favorirne la crescita”

Nei primi sei mesi del 2020 registrate 18.673 aziende, lo 0,01% in più sul totale

La quarantena e il lockdown non hanno bloccato la voglia di fare imprese delle donne in provincia di Bergamo. O, almeno, lo hanno fatto in misura minore rispetto al resto d’Italia, dove la crescita nel numero delle aziende femminili è tornata ai livelli del 2017.

L’imprenditoria femminile bergamasca, dunque, subisce il colpo dell’epidemia da Covid molto meno delle imprese rosa su tutto il territorio nazionale. Emerge dalla lettura del Rapporto Unioncamere sull’imprenditoria femminile.

Il monitoraggio di Unioncamere parte da un universo nazionale fatto da 1 milione e 340 mila aziende femminili, il 22% del totale. Nei primi sei mesi del 2020, le iscrizioni delle imprese femminili si sono ridotte maggiormente rispetto a quelle delle imprese maschili (-42,3% contro -35,2%; media generale -37,1%). Il commercio al dettaglio (-1.206), la ristorazione (-871), il commercio all’ingrosso (-585), altre attività di servizi per la persona (-550) sono i settori con le maggiori riduzioni assolute di iscrizioni femminili.

A Bergamo, prima dell’epidemia, le aziende in mano a imprenditrici erano 18.761, il 19,85% del totale. Al censimento del 30 giugno ne sono state contate 18.673, con lo 0,01% in più sul totale.

Anche a Bergamo l’imprenditoria femminile si caratterizza per una maggiore concentrazione nel settore dei servizi, dove operano circa i due terzi (69,5%) delle imprese attive. Il numero delle imprenditrici orobiche (tra le quali figurano molte donne di origine o di cittadinanza straniera, l’11,5% del totale) è cresciuto anche nei periodi più aspri dell’ultima crisi.

Dati che offrono la misura del ruolo importante che le imprese femminili rappresentano a ogni latitudine e in ogni realtà. E che, secondo la ricerca di Unioncamere, soffrono in ogni territorio di mali endemici e spesso maschiocentrici. Sono maschiocentriche le banche, e quindi, solo il 20% delle imprese femminili dichiara di ricorrere normalmente al credito bancario, dichiarando di non farlo perché si aspettano un rifiuto (8% contro 4% di imprese maschili). Tra le imprese che hanno richiesto credito, nel caso delle imprese femminili è maggiore la percentuale in cui il credito erogato non è stato adeguato oppure la richiesta non è stata accolta (8% vs 4%). Invece che la solidità finanziaria, le imprese femminili dichiarano che le banche avanzano la richiesta di garanzie di terzi per la concessione del credito (54% vs 39%).

Eppure, le aziende in mano alle donne sono quelle con la maggiore spinta per valorizzare le competenze ed esperienze professionali; sono quelle con più laureati; con maggior relazionalità e soprattutto con un sistema di welfare realizzato: le imprese femminili offrono maggiormente possibilità di smart working ai propri dipendenti (50% contro 43%) ; hanno adottato maggiormente iniziative volte a sostenere la salute e il benessere dei propri dipendenti (72% contro 67%) e sono più propense a sviluppare attività di welfare aziendale (69% contro 60%).

“Le questioni di genere non sono più, e non soltanto, questioni di equità e giustizia sociale, ma un problema di efficienza strutturale del Paese, per la quale sono necessarie strategie multilivello”. Katia Dezio, responsabile del Coordinamento Donne della Cisl di Bergamo ritiene che “occorra favorire la presenza del lavoro femminile nei campi non standard in un mercato del lavoro che continua a creare segregazioni di genere, sia per settori e per professioni che per posizioni gerarchiche; ricercare con più incisività strumenti che contrastino l’interruzione del meccanismo, anche culturale, che crea discontinuità occupazionale e l’interruzione di carriera legata all’evento maternità”.

L’imprenditoria femminile soffre pesantemente della cosiddetta intersecazione della ‘segregazione orizzontale’ e di quella ‘verticale’: “La preferenza degli uomini rispetto alle donne in molti lavori e in molte professioni, la prima, e la difficoltà delle donne a raggiungere e mantenere nel tempo le posizioni apicali la seconda. Il superamento delle rigidità delle culture organizzative, il retaggio di stereotipi e le varie forme discriminanti – conclude Dezio – rimangono ancora, per le donne, un percorso tortuoso e tutto in salita”.

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