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L'intervista

Medici di base: “Più del previsto i pensionati, si aumentino i pazienti, ma puntando su microteam”

Abbiamo chiesto al dottor Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo, di spiegarci il problema della mancanza dei medici di base e cosa pensa dell'ipotesi di aumentare il massimale di pazienti

È allarme per la carenza di medici di base. Molti stanno andando in pensione ed è difficile sostituirli perchè nel tempo si è creato un salto generazionale dovuto alla limitatezza dei posti al corso di specializzazione necessario per accedere al sistema sanitario nazionale.

In base ai numeri diffusi dall’Ats di Bergamo, sono 30 quelli che lasceranno entro l’estate e nel prossimo triennio saranno 125, il 20% del totale. A fronte di questa problematica, una delle ipotesi su cui si sta discutendo è quella di aumentare il numero di pazienti che ogni medico può curare da 1.500 a 1.800: abbiamo chiesto al dottor Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo, cosa ne pensa e di spiegarci meglio la situazione.

Si sta parlando molto del problema del ricambio dei medici di base. Cosa ne pensa?

I numeri che Ats ha diffuso recentemente sono reali ma sottostimati perché si basano sull’età di pensionamento a settant’anni, che è il limite massimo per la pensione di vecchiaia. Ma il medico può scegliere di accedervi mediamente tra i 62 e i 70 anni: la massima convenienza è a 68 anni perché continuare a lavorare nei due anni successivi comporta un aumento molto basso dell’assegno percepito e c’è chi, per esempio, va in pensione e poi lavora nelle Rsa. Elaborare altre stime, però, è difficile perchè le scelte personali incidono molto: quello delineato da Ats, quindi, è lo scenario minimo.

La situazione dunque è più grave

Certo, è il risultato di una situazione che si sta trascinando da tempo. Noi medici abbiamo cominciato a evidenziare la necessità di aumentare i posti al corso di formazione in medicina generale dieci anni fa ma sono stati incrementati solo nel 2018. Considerando che ha una durata di tre anni, facendo due calcoli veloci si può constatare che con questa latenza e i numeri relativi ai pensionamenti dei medici, avremo il problema per almeno 5-6 anni. Poi si stabilirà un equilibrio che però non si attesterà su un massimo di 1.500 pazienti per ogni dottore ma 1.800.

Ma come mai si è arrivati a questo punto? Non si poteva prevenire questo problema?

Sì, per la medicina generale valgono le stesse considerazioni che solitamente vengono espresse per le specialità ospedaliere. In Italia negli anni scorsi il numero dei laureati in medicina e chirurgia è variato tra i 9mila e gli 11mila dottori ed è sufficiente al fabbisogno. Il problema è che per lavorare nel servizio sanitario nazionale non basta aver conseguito questa laurea dopo aver compiuto un percorso di studi di sei anni: anche in applicazione della normativa europea è necessaria la specializzazione. E le specializzazioni sono fondate su un sistema di borse di studio.

Ci spieghi

Ci sono le specializzazioni universitarie, che consistono in un corso accademico che ha una borsa di studio di circa 1.800 euro al mese e che riguarda tutte le specialità tranne una, la medicina generale, cioè quella del medico di famiglia. Quest’ultima prevede un corso non universitario: è gestito dalle regioni e ha una borsa di studio di 800 euro al mese. Dal punto di vista economico, quindi, rispetto alle altre scelte, è meno conveniente perchè a 25 anni i neolaureati vorrebbero avere la propria autonomia, così vivono svolgendo l’unica attività considerata compatibile che è la guardia medica e consente di percepire un buon compenso: di giorno studiano e di notte lavorano. In alternativa possono cominciare a inserirsi seguendo 600 assistiti (con la possibilità di discutere i casi con dei tutor) mentre effettuano il corso, ma perdono la borsa di studio e faticano a sostenere le spese per se stessi e il proprio ambulatorio.

E quanti sono i posti disponibili al corso di specializzazione?

Fino al 2018 erano 900 all’anno, poi sono aumentati a circa 2mila. Dei 9/11mila neolaureati annualmente, però, solo alcuni riescono ad accedere al corso di specializzazione e tanti rimangono in una sorta di limbo che via via è aumentato. Siamo arrivati a 15mila medici in quella condizione: lavorano nelle Rsa o come guardia medica, sostituiscono i medici di famiglia o vanno all’estero, anche in Paesi non molto remoti come Svizzera, Francia o Germania, dove vengono accolti a braccia aperte. Negli ultimi due anni la situazione è migliorata: il numero dei neolaureati quasi equivale a quello dei posti disponibili, quindi siamo vicini a fare in modo che ognuno trovi il posto in merito a una specialità. Rimangono comunque da assorbire quei 15mila che stanno presentando la domanda: prima o poi riusciranno a entrare nel sistema sanitario nazionale ma resteranno fuori gli altri.

Quindi i medici di base ci sarebbero?

Sì, ma considerando che i posti sono stati aumentati solo nel 2018 e il corso ha durata triennale, non l’hanno ancora terminato. Il problema è che i medici in servizio hanno sostanzialmente la stessa età, sono entrati con la riforma sanitaria 833 e andranno in pensione tutti insieme. Quindi per 5-6 anni rimarremo senza medici di base, poi ci sarà il ricambio, ma il massimale degli assistiti sarà di 1.800 e non 1.500 perché comunque ce ne saranno meno. È un numero che si riscontra in tutta Europa laddove c’è un sistema sanitario nazionale, ma il problema è che in Italia non sempre lo studio dei medici comprende l’infermiere e una segretaria: la parte burocratica e infermieristica grava sulle spalle del dottore e con 1.800 pazienti non sarebbe sostenibile.

Le Aggregazioni Funzionali Territoriali (l’aggregazione dei medici) potrebbero aiutare?

Si possono realizzare, anzi erano previste dalla legge Balduzzi del 2012 ma non sono mai state attuate. E potrebbero essere utili in base alla conformazione e alle esigenze del territorio, per esempio Albino è diverso da Schilpario. Prima di tutto, però, bisogna puntare sui microteam composti da un medico di base, un infermiere e una segretaria, altrimenti cambia poco.

Per concludere, in alcuni territori si sta già riscontrando la carenza dei medici di base

È già in atto soprattutto in alcune regioni: Lombardia, Veneto e in parte Emilia Romagna. Al sud la problematica è più graduale perchè negli anni hanno continuato a inserire medici. Da noi si è deciso che ne sarebbe bastato uno ogni 1.300 abitanti con massimale di 1.500 pazienti, mentre al sud molti sono entrati nel sistema sanitario nazionale anche con 900 assistiti e si è creata una generazione intermedia, magari un po’ insoddisfatta perchè non aveva un numero adeguato di pazienti, ma sta riuscendo a subentrare e non si verifica questo taglio generazionale. Per rispondere al fabbisogno del nostro territorio potremmo importarli, ma non è semplice.

Come mai?

Perché dovrebbero venire a Bergamo dove il costo della vita e degli affitti è superiore e nella migliore delle ipotesi la retribuzione è la stessa? Per il compenso, infatti, i medici di medicina generale hanno un accordo collettivo nazionale e un accordo integrativo regionale e in Lombardia è forse il meno ricco d’Italia come risorse aggiuntive.

E quali azioni si potrebbero attuare?

Bisognerebbe realizzare misure a sostegno dei giovani medici. Per esempio, i Comuni potrebbero mettere a disposizione ambulatori gratuitamente: se forniamo loro dei supporti è più facile che rimangano sul nostro territorio sopperendo alla mancanza di dottori.

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