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Il nuovo numero

Tempo sospeso tra Dürer e Bergman: in edicola la Rivista di Bergamo

Da sabato 11 luglio torna in edicola il nuovo numero de La Rivista di Bergamo. Il primo numero dopo l'emergenza Coronavirus.

Da sabato 11 luglio torna in edicola il nuovo numero de La Rivista di Bergamo. Pubblichiamo l’editoriale del direttore Fernando Noris e il sommario della rivista.

TEMPO SOSPESO TRA DÜRER E BERGMAN

(Testo scritto il 2 aprile 2020)
In questa innaturale primavera d’un 2020 bisestile, “La Rivista di Bergamo” dedica un pensiero ai protagonisti che hanno saputo affrontarla con la forza di un valore morale senza confronti e senza risparmio. Li abbiamo conosciuti. Li abbiamo riscoperti, dopo che spesso abbiamo trovato scontato averli al fianco senza avvertire la qualità della loro dedizione. Persone, uomini e donne, eccezionali.

Ho avuto la fortuna d’avere avuto allievi e allieve che sono diventati medici e che ho ritrovato nelle cronache di questi giorni. A loro comunico l’orgoglio di averli avuti in classe e nella vita, e una riconoscenza estesa a tutti i loro colleghi.
Peregrinanti come il Cavaliere di Dürer, nel sostenere le nostre vite malconce, nel contenderle alla malattia e ai diavoli di turno, hanno scommesso di poter riuscire a distrarre la Morte, anche un solo istante, per riuscire a strapparle una vita in più. A scapito, qualche volta, della propria. Ci faremo raccontare la profezia di questa avventura dal Cavaliere dell’artista tedesco (1513) e, come da evidente derivazione, dall’altro cavaliere, l’Antonius Block di Ingmar Bergman nel suo Il settimo sigillo (1957).

Si deve forse a Erasmo da Rotterdam (Enchiridion Militis Christiani, 1501-1504) la fonte alla quale Albrecht Dürer (Norimberga 1471-1528) si ispirò nell’invenzione di questa incisione del 1513. Erasmo era stato un grande ammiratore delle incisioni di Dürer, sino ad affermare che l’artista aveva superato Apelle perché, per creare, non aveva avuto bisogno del colore ma solamente di alcune linee nere.

La scena rappresenta un cavaliere che, protetto da una potente armatura e accompagnato da un cane fedele, simboli rispettivamente della sua forza e della sua fedeltà, avanza verso la sua mèta, raffigurata come la Gerusalemme Celeste nella città turrita che si intravede in alto, al centro. Lo incalza, da dietro, il diavolo con la sua picca, con corna e zampe da capro, lunghe orecchie a punta e il muso da bestia. La Morte, cinta da una minacciosa corona di serpenti al sommo di un corpo devastato, affianca il cavaliere indicandogli la clessidra di un tempo in scadenza, mentre il vecchio ronzino ciondola il capo in direzione di un teschio, vicino a un ramarro, anch’esso minaccia mortale, che mira alla zampa del cavallo.

Leonardo Sciascia (Il cavaliere e la morte, 1989 Adelphi) avrebbe letto la scena con il suo noto disincanto: «L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente, arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della
clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. “La morte si sconta vivendo”. Mendicante, la si mendica. In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. […] Ma il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui».

Lo sfondo roccioso è abitato da incubi, da dirupi e da alberi secchi con le radici rivolte all’aria. Su tutto questo ambiente, ostile e devastato, domina la figura del cavaliere, che avanza sicuro, forte della sua identità e delle sue convinzioni, armato di spada e lancia. Debitore forse di reminiscenze leonardesche, o del Monumento di Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, che Dürer poté vedere a Venezia, l’artista tedesco
conferisce all’insieme una terribilità monumentale, nella quale il cavaliere, impassibile sotto il suo elmo, procede nel suo viaggio, guardando dritto davanti a sé, ignorando le insidie dei nemici, riconoscendosi la forza per neutralizzarli.

Immagine emblematica delle sfide che un vero leader è chiamato ad affrontare, questa incisione costituisce la sintesi degli atteggiamenti che l’antica filosofia scolastica aveva proposto, per secoli, nello studio delle virtù morali, teologiche e intellettuali. Come a dire, la summa di un viaggio formativo, coerente nei comportamenti, nelle aspirazioni, nel coordinare il pensare con l’agire.
Il dato che emerge con maggiore evidenza da questa invenzione di Dürer, caratterizzata da grande intensità narrativa, è la solitudine dentro cui si muove il protagonista. Una solitudine con la quale anche i leader del nostro tempo si sono trovati a doversi misurare. Circondati da tanti proclami, spesso da tante chiacchiere, hanno lavorato al limite e al di sopra del limite, si sono avvalsi di strategie e strumentazioni
indispensabili, hanno operato in équipe con molti altri, ma quando è stato il momento della sfida cruciale, si sono trovati soli con le proprie paure, il proprio coraggio, le proprie risorse, le proprie competenze, i propri rischi.

La responsabilità di procedere, e di come procedere, si è presentata loro come una ineludibile scommessa, supportata solo dalla loro resistenza interiore e fisica.
Il Cavaliere di Dürer fa parte delle tre incisioni che compongono il trittico Meisterstiche, a Karlsruhe nella Staatliche Kunsthalle.
Tre episodi che non sono legati tra loro da una apparente unità compositiva. Rappresentano tre modelli di vita ispirati rispettivamente alle virtù morali (Melancolia I), intellettuali (Il cavaliere, la morte, il diavolo) e teologiche (San Girolamo). Nel loro insieme rinviano a una tradizione classica riletta in chiave cristiana.
Anzi, ciascuna delle tre raffigurazioni rimanda proprio a una visione del mondo in chiave di umanesimo cristiano. Sono, a distanza, i compagni di viaggio del Cavaliere: la complessità e la ricchezza di un sapere tra scienza, alchimia e filosofia, da un lato, e una lettura appassionata del trascendente nelle antiche scritture.

Melancolia I ritrae una figura femminile seduta, raccolta in se stessa. Alle sue spalle un muro e nelle vicinanze uno specchio d’acqua. La donna è attorniata da molti oggetti, della più varia natura e densi di riferimenti alchemici, disposti con apparente casualità: una clessidra, una bilancia, strumenti da falegname, un solido geometrico (individuabile come un troncato romboedrico), una sfera, una campana, una lunga lama e una scala a pioli. Arricchiscono la scena un putto, seduto in secondo piano e un cane addormentato. Altri simboli, associabili a una declinazione del sentimento della malinconia possono essere una cometa e l’arcobaleno, che si intravedono sullo sfondo, in alto a sinistra.
La donna regge le testa appoggiandola con la mano stretta a pugno.

È assorta e pensosa, si direbbe persino estranea a tutto quanto la circonda e in preda a una apparente tristezza. Ma che cosa intendevano gli alchimisti, e con loro Dürer, per “melancolia”? Non era, come si potrebbe equivocare, la raffigurazione di uno stato d’animo di pura sentimentalità o di un atteggiamento di fragilità emotiva.
L’opera, simbolicamente, rappresentava, in termini alchemici, le difficoltà che si incontrano nel tentativo di tramutare il piombo (le tenebrose cose del mondo), in oro, ossia nella conoscenza e nella padronanza del senso dell’esistenza.

Il secondo compagno di viaggio del Cavaliere di Dürer, nel trittico di Karlsruhe, è San Girolamo, santo rappresentato nella sua cella, intento allo studio e alla meditazione. Un ambiente pervaso da una luce diffusa, che entra dalle grandi finestre, evidenzia il rigore prospettico, l’accurata selezione degli oggetti, la posizione raccolta del protagonista, gli animali simbolici presenti, un cane e un leone, che servono a
costruire una narrazione di pacata contemplazione. L’umanista ante litteram, traduttore della Bibbia, trova nella forza del Verbum, nella Parola di Dio, la bellezza di un alimento in grado di dare senso, se non sempre di fornire facili risposte, a tutte le vicende del mondo degli uomini. In piena luce, sul davanzale, un teschio allude alla morte, la vicenda più difficile da accettare e da interpretare. Un memento mori rivolto anche al vitalismo del suo vicino Cavaliere.

E come Erasmo per Dürer, sarà Albertus Pictor (Alberto Immenhusen, 1440-1507) a ispirare Ingmar Bergman, con un affresco realizzato nel ciclo della chiesa di Täby, vicino a Stoccolma. Il pittore tedesco, attivo in Svezia sulla fine del XV secolo, aveva illustrato l’episodio di un personaggio intento a una partita a scacchi con la Morte.

Da questa invenzione, Bergman fece derivare lo snodo narrativo del proprio film, Il settimo sigillo (1957), Premio Speciale della Giuria al 10° Festival di Cannes di quell’anno. Di ritorno dalla crociata, deluso per non aver saputo dare pace ai suoi tormenti interiori, Antonius Block si
ritrova in una Danimarca medioevale, sconvolta dalla peste e travolta da paure e disperazione. Ad attenderlo, la Morte, che, proprio qui, ha deciso di venire a portarselo via. Perennemente angosciato da una infinità di interrogativi sul rapporto tra l’Uomo e Dio, sul senso della morte, sul dubbio di una possibile salvezza nell’aldilà e, fondamentalmente, sull’esistenza stessa di Dio, Antonius Block, che dapprima si era confidato con un creduto monaco, scopre di avere invece incontrato la Morte in persona.

Non sono problemi invece che disturbano il suo, felicemente ateo, scudiero Jons, interessato laicamente a cose ben più materiali e pratiche, anche se ugualmente inquieto di fronte a un avvenire incerto e ignoto. Il cavaliere ottiene dalla Morte di rinviare il momento della propria fine, proponendole di ingaggiare con lei una partita a scacchi. In questa sospensione di tempo, Block ha modo di incontrare gli abitanti del
villaggio, molti ossessionati dal tentativo di evitare la morte, o di esorcizzarne almeno la paura: una incolpevole presunta streghetta, una misteriosa donna muta, dei teatranti, dei disperati nella pratica di penitenze estreme, dei gaudenti, attivi nel cogliere gli ultimi piaceri della vita. L’incontro e il dialogo che più lo appassiona è quello con i componenti di ciò che è rimasto di una compagnia di saltimbanchi, Jof,
Mia e il piccolo Mikael: gente semplice, pura, ingenua che non si pone problemi, ma vive felice del reciproco amore.

Adombrando, senza troppe forzature, la Sacra Famiglia, Bergman non è interessato a fornire con il suo film risposte dirette o conclusive agli interrogativi vissuti da Antonius Block. Senza che noi ci si lasci invadere dalle molteplici problematiche sollevate dal film, ci concediamo di isolarne un frammento, per sottolineare quanto il regista svedese si sia limitato (si fa per dire) a lasciare che questa fosse l’ultima missione portata a termine dal cavaliere: approfittare di un intervallo della sua partita con la Morte, per distrarla, consentendo alla piccola famiglia di girovaghi di riuscire a fuggire e di salvarsi, unici tra tutti.

La semplice arte del loro lavoro di attori e la purezza del loro cuore hanno meritato da Block il regalo della Vita.
Sarà infatti il salvato visionario capofamiglia Jof, che indicherà, da lontano, sul profilo della collina nera, il corteo della Morte che, danzando, si trascinerà via le sue prede.
Due cavalieri, due prototipi di salvezza (SALUS è la scritta di Dürer che accompagna la sua firma).
E di quanta “salute” ci sia stato bisogno, a Bergamo e altrove, in questo maledetto 2020, che passerà alla storia, lo abbiamo tutti constatato e vissuto. E quali partite abbiano saputo giocare i nostri medici, infermieri, volontari, forze di ogni ordine e grado l’abbiamo pure visto. Bravi a distrarre la Morte tutte le volte che, mirando a una città ideale del futuro, sono riusciti a strapparle corpi e anime. A tutti loro un grazie grandissimo, anche a nome (si licet), di Dürer e di Bergman.

Città del futuro: aspirazione comune e impaziente dei sopravvissuti, che rischieranno di essere illusi, da imbonitori di passaggio, nel desiderare un ritorno alla normalità di prima. Senza avere elaborato criticamente la riflessione che, prima, non che tutto fosse poi così tanto “normale”: nel lavoro, nelle relazioni, nella comunicazione, nell’economia, nella politica, nella gestione della salute, nella solidarietà, nell’accoglienza, nel giocarsi il tempo libero, persino nel vivere le pratiche di religione…

Ma non c’è da illudersi. Almeno ascoltando alcuni asfaltatori di scorciatoie: basterebbero a spiegare ogni disillusione alcune banalità televisive che si sono viste scorrere in questo tragico inizio di primavera. Imperterrite. Incomprensibili. Insondabili. (In parallelo, per altro, con appassionate, competenti e utilissime trasmissioni!). Esemplificare la vuotaggine di tanti eroi del nulla sarebbe dare risonanza a un vergognoso esibizionismo senza pudore e senza dignità.

Se nuovo Rinascimento dovrà esserci, sarà soltanto perché i migliori, come li abbiamo ammirati in questi mesi, li scopriremo ancora migliori; nonostante continueremo a vederci girare attorno i peggiori, che continueranno a dimostrarsi peggiori di come li avevamo lasciati.
O solo ancora più stupidi.

Fernando Noris

LA RIVISTA DI BERGAMO n. 102

Aprile – Maggio – Giugno 2020

SOMMARIO

I Baschenis – Ricerca di una identità
di Francesco Rossi

Incanti siberiani – Un viaggio attraverso immagini
di Filippo Valoti Alebardi

Il filo di Arianna di Natalia Berselli
di Carlo Pinessi

Percorsi veneti a Bergamo fra Cinquecento e Settecento
Da Giovanni Contarini a Francesco Polazzo
di Amalia Pacia

Urgnano e Basella nelle vecchie cartoline (1900-1970)
Dalla collezione alla condivisione
di Vincenzo Mazzoleni

La Scuola di Bergamo
A.C. Allievi e Sostenitori dell’Accademia Carrara di Belle Arti
a cura di GianMaria Labaa

Il Castello di San Vigilio in Bergamo
Alcune note per il suo futuro
di GianMaria Labaa

Guardare attraverso per guardare oltre
Bergamo vista dai suoi fotografi per finanziare la ricerca
di Maria Elena Baroni, Sonia Benigni e Roberta Frigeni

C’era una volta la Rivista di Bergamo
Documenti di critica, d’arte e di letteratura della storia di Bergamo nel tempo

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