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Il discomane

Un grande Bob Dylan mette in musica tutti i miti dell’America

"Rough and Rowdy Ways": a 79 anni Dylan non si accontenta e, forse anche influenzato dal periodo in cui viviamo, pubblica un album certamente tra i suoi più importanti.

Artista: Bob Dylan
Titolo: Rough and Rowdy Ways
Voto: ***1/2

Il nuovo album di Bob Dylan era molto atteso, anche da me.

Nutro da sempre un’ammirazione sincera per l’autore di “Like a Rolling stone” che seguo sin dai primi anni ’70. Alcuni suoi dischi come “Blood on the Tracks” occupano i primissimi posti della mia classifica dei dieci dischi da portare su un’isola deserta e per molti altri covo una passione insana.

Negli ultimi vent’anni le uscite di vero valore non sono state moltissime ma sicuramente Time out of Mind (1997) e Oh Mercy (1989) sono lavori di qualità elevatissima e all’altezza dei classici.

Dylan resta una delle vere figure chiave di tutta la cultura pop delle ultime decadi, il vero portavoce di più d’una generazione e seppure il suo mito abbia subito, negli ultimi anni, come è naturale, un minimo appannamento, è indubbio che tra tutti i superstiti di quell’epoca gloriosa rappresentata dagli anni 60/70, sia quello più carismatico, quello più autorevole.

L’uomo di Duluth ci ha messo molto del suo per diventare ciò che è: i cambi di stile musicali, il modo di pensare ribelle, l’anticonformismo, sono tutti atteggiamenti che non l’hanno aiutato a vendere più dischi, ma ne hanno rafforzato il mito e l’autorevolezza .

Mr. Zimmermann è veramente l’ultimo dei mohicani, molto più di Mick Jagger, molto più di qualsiasi superstite dei Beatles, molto più del Boss, molto più di chiunque altro.

L’attesa per ogni suo album è quasi sempre spasmodica: sai che la nuova uscita potrà piacere o meno, ma non sai mai cosa aspettarti, certamente farà discutere e non lascerà indifferenti. Un po’ come i suoi concerti nei quali se non conosci il testo è difficile riconoscere il brano.

Il nuovo album di inediti esce 8 anni dopo Tempest, un disco poco più che discreto e che il trascorrere del tempo ha stemperato l’importanza; a Tempest è seguita la trilogia dei dischi ispirati al grande song book della canzone americana, operazione per certi versi suggestiva ma che nel tempo ha mostrato la corda: ascoltare Frank Sinatra rifatto da Dylan è come andare a mangiare la carbonara in un ristorante norvegese. La copia (cover) ti può intrigare, ma poi quando la confronti con l’originale non puoi che preferire, e di gran lunga, quest’ultima.

Dopodiché Dylan ha vinto il premio Nobel, ma alla cerimonia di consegna, tanto per non smentirsi, ha chiesto all’amica Patti Smith di sostituirlo e proseguito il suo never ending tour durante il quale, in certe serate anche il fan più incallito ha fatto fatica a “mandare giù” certe versioni dei suoi pezzi più famosi. Insomma, il tutto ed il contrario di tutto.

Per fortuna che ha anche avuto la voglia di rispolverare alcune registrazioni degli anni passati e di pubblicarle come quelle relative al tour della Rolling Thunder Revue.

Ma Dylan è questo: è l’autore di Blowin’ in the Wind, della scomoda difesa dei più deboli (Hurricane), delle visioni apocalittiche (Hard rain), è il cantore dell’amore perduto (Sara) e di qualche decina di capolavori, che ci hanno fatto riflettere, commuovere e, qualche volta, anche incavolare.

Non so dirvi se Roughly and Rowdy days sia un capolavoro o meno: certo se lo confronto, almeno musicalmente, con Blonde on Blonde, Blood on the Tracks, con Desire, è perdente; è però altrettanto vero che negli ultimi giorni l’ho ascoltato in via esclusiva, rinviando la mia attenzione di altre uscite importanti, come Homeground di Neil Young, come Monovision di Ray Lamontagne o il live di Eric Andersen o, per venire a qualche nome più recente, come My claim to Fame di Mick Hayes e questo, almeno per me, è sintomatico.

Certamente è un disco importante, che merita attenzione per in temi trattati, per i continui richiami ad altre canzoni ad altre figure di un passato più o meno recenti.

La sensazione è che Dylan, più che osservare il mondo come ha fatto in tutti questi anni, si apra al suo pubblico , introducendolo ai propri personaggi di riferimento, alle persone e ai fatti che hanno influenzato la sua vita: una sorta di diario personale, i cui avvenimenti di intersecano con il mondo esterno nel quale il nostro è protagonista. Forse un testamento.

Un labirinto di citazioni, riferimenti, all’interno del quale è facile perdere filo e il rischio di credere di aver capito anche laddove non vi è nulla da capire (come diceva il suo emulo peninsulare Francesco De Gregori) è alto.

Dove sta la bellezza di tutto questo?

Nel fatto che nonostante non vi siano canzoni memorabili, parole, musica e interpretazione si amalgamano in modo perfetto, creando un’atmosfera generale omogenea, suggestiva, attraente, intrigante, così che hai l’urgenza di capire a fondo i significati delle canzoni, dei testi, del “messaggio”, perché la sensazione è che Dylan stia cantando per te, solo per te. Dylan interprete forse non ha raggiunto mai apici come in questo disco: si sente che l’esperienza di crooner degli ultimi dischi lo ha arricchito anche se non è questione di forma ma di attitudine.

Ad accompagnarlo un gruppo di musicisti collaudati che comprende i chitarristi Charlie Sexton e Bob Britt, il polistrumentista Donnie Herron, il bassista Tony Garnier, il batterista Matt Chamberlain, aggregatosi per l’occasione. E poi alcuni ospiti fra cui Fiona Apple, il cantautore Blake Mills, Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty, Alan Pasqua, Tommy Rhodes, anche se si fa fatica a cogliere il valore aggiunto delle presenze.

Dylan ha sempre amato circondarsi di artisti e musicisti relegandoli però quasi sempre a un ruolo di retrovia.

nobel dylan

E le canzoni?

Quasi tutte canzoni hanno una durata “non commerciale” e vengono interpretate, utilizzando lo spoken word, con uno stile che avvicina il “nostro” agli ultimi lavori di Leonard Cohen e, ma non so dirvi il perché, in certi casi a Tom Waits (ma io trovo Tom Waits ovunque ci sia il bello).

Il blues, da sempre genere molto amato e frequentato, si alterna alle atmosfere soffuse degli ultimi dischi.

In questa direzione si muove l’iniziale I Contain Multitudes, una leggera carezza melodica, prestata dal suono di una chitarra acustica sul quale si adagia la voce di Dylan, mai così delicata: un brano il cui testo è un accumulo di citazioni e riferimenti, non sempre coerenti fra loro e che sembra scritta di getto, dando libero sfogo a un creatività debordante che gli permette di accostare la sua personalità a quella di personaggi (appunto) differenti come Anna Frank, Indiana Jones , i Rolling Stones, William Blake, Poe, Beethoven, Chopin. Nel testo inizia ad aleggiare il tema della morte (“Oggi, domani e anche ieri / Muoiono i fiori come muoiono tutte le cose”) che ricorrerà in molti dei brani successivi.

Le stesse atmosfere musicali che trovano una loro continuità in My Owner Version of You, un brano scenografico che potrebbe essere la colonna sonora di un noir degli anni ‘30 e che è la storia della creazione di un alter ego, di un avatar o come qualcun altro ha scritto di una sorta di Frankestein. Il testo è visionario e pieno di citazioni che vanno da Al Pacino a Robert De Niro, a Freud così, senza un’apparente coerenza, anche se poi il tutto suona (e si legge) anche bene. Però la sensazione che il poeta a volte scherzi e che ai suoi testi non si debba dare sempre così importanza.

E la breve Black Rider (vero che il titolo è abbastanza scontato ma è anche lo stesso di un brano di Tom Waits), con una presenza strumentale ridotta all’osso è canzone, come facilmente desumibile dal titolo, che tratta di morte (“Cavaliere nero, cavaliere nero , dimmi quando, dimmi come/Se c’è mai stato un tempo , allora lascia che sia adesso //lascia che sia adesso/lasciami passare , apri la porta/la mia anima è in difficoltà, la mia mente è in guerra/Non abbracciarmi, non lusingarmi, non accendere il fascino/prenderò una spada e ti taglierò il braccio”). Il brano è poco più di un bozzetto, neppure troppo memorabile, ma è ancora l’interpretazione, compassata, quasi distante, in qualche modo rassegnata, a colpire.

Anche Mother of Muses si muove sulle medesime atmosfere (rarefatte) dei brani sopra richiamati, solo una chitarra e nulla più; da un punto di vista delle liriche, il brano riporta alla memoria, senza un grande filo logico, alcune personalità del passato (Sing of Sherman, Montgomery and Scott, and Patton, and the battles they fought/ Who cleared the path of Presley to sing/Who carved the path for Martin Luther King) verso le quali Dylan esprime tutta la sua ammirazione dichiarandosi disponibile a cantarne le lodi tutto il giorno (“man I could tell their stories, all day).

Poi ci sono le canzoni più ispirate al blues, quelle che ci riportano alla svolta elettrica del Dylan degli anni 60, le atmosfere di Highway 61 revisited per intenderci, anche se la rabbia è stemperata nel racconto, a volte compiaciuto, di un’epoca nella quale il nostro è stato testimone ma anche consapevole protagonista.

Ecco quindi le storie raccontate in False Prophet, dove la citazione autobiografica è evidente (Ho aperto il mio cuore al mondo e il mondo è entrato/…..Non sono un falso profeta /so quello che so/vado nei posti dove va soltanto la gente sola/…ho cercato in tutto il mondo il sacro Graal /canto canzoni d’amore/canto canzoni di tradimento/ …..non somiglio per nulla a ciò che il mio aspetto spettrale suggerisce) e tutto ciò in mezzo ad altri riferimenti come Hello Mary Lou che è un successo di Gene Pitney dei primi anni ’60, piuttosto che Ball of Chain, brano di Big Mama Thorton portato al successo da Janis Joplin o Hello Stranger, classico degli anni ’30 della Carter Family; così la citazione Only the Lonely, potrebbe essere quella riferita a una canzone di Roy Orbison campione del Rock ‘n’roll di fine anni 50 e coinvolto da Dylan stesso nell’avventura con i Traveling Wilburys; e anche frasi che possono apparire casuali come nel caso di “climbing a mountain of swords with my bare feet”, ovvero “scalando una montagna di spade a piedi scalzi” in realtà trovano preciso riscontro in alcune filosofie orientali.

Goodbye Jimmy Reed è l’esplicito omaggio ad un maestro del blues morto nel 1976 all’età di 51 anni che è stato un po’ il caposcuola di tanti rocker, tra cui Eric Clapton o gli stessi Stones.
Il brano, bello e “tirato”, rappresenta un unicum dell’album, in quanto ci restituisce un Dylan più convenzionale rispetto ad altre tracce dello stesso lavoro, con chitarre e armonica in primo piano ed uno sviluppo ritmico più tradizionale.

La parentesi blues viene chiusa con Crossing the Rubicon, un altro brano dove la metafora della vita che termina è ben rappresentata da alcuni passaggi (Ho dipinto il mio carro, ho abbandonato ogni speranza/E ho attraversato il Rubicone /……… tre miglia a nord del purgatorio/ Un passo dal grande oltre/Ho pregato la croce, ho baciato le ragazze/E ho attraversato il Rubicone).

E poi ci sono le gemme, ovvero brani che per un motivo o per l’altro hanno il pregio, per motivi svariati, dell’unicità.

Così è “I’ve made up my mind to give myself to you”, una ballata nostalgica, che ricorda alcune cose di Triplicate e non riesce a celare la tentazione di Dylan di atteggiarsi a crooner, ambizione legittima a 79 anni anche se, quando all’interno del brano, l’interpretazione diviene appena più sofferta è facile concludere che quella dell’emulo di Frank Sinatra non sia la migliore versione del nostro e così è Key West (Philosopher Pirate), da un punto di vista compositivo, l’apice del disco, ovvero una lunga composizione di oltre nove minuti dove Dylan declama alcuni versi, sullo sfondo di poche note di chitarra acustica, fisarmonica, un accenno di spazzole di batteria ed un coro impercettibile seppure solenne. È la storia del posto dove andare , un giorno, insieme a tutti gli altri che come lui hanno fatto la storia ma che sono nati “dalla parte sbagliata del binario ferroviario”, ossia “Come Ginsberg, Corso e Kerouac/Come Louis, Jimmy, Buddy e tutto il resto”.

È la consapevolezza di fare parte della storia, del ruolo della storia e forse di una certa serenità raggiunta che detto da Dylan lascia comunque quantomeno perplessi. Ma forse non è neppure così perché mr Zimmermann è tutto fuorché un libro aperto e quando pensi di averlo decifrato subito dopo è pronto a stupirti nuovamente .

La chiusura del disco è affidata alla canzone simbolo di tutto il lavoro, ossia Murder Most Foul, una sorta di lungo sermone della durata di quasi 17 minuti che occupa un’intera facciata del disco.
Con un titolo che probabilmente cita l’Amleto di Shakespeare (ma potrebbe essere anche riferito a un noir del 1964 dal titolo “Assassinio sul palcoscenico”), la canzone è una riflessione sulle conseguenze dell’assassinio del presidente John F. Kennedy, della consapevolezza della fragilità di un popolo e di una cultura che fino a quel momento aveva vissuto, in superficie, di ottimismo e certezze e, sotto, di infinite contraddizioni. E il riferimento all’assassinio di Kennedy è tutto fuorché casuale rispetto alla situazione odierna dove le sicurezze sono scalfite dalle conseguenze della pandemia e dalle lacerazioni di un conflitto razziale che in questi mesi ha avuto il suo (in)aspettato apice .

I riferimenti e le citazioni si sprecano: ai propri miti musicali, alcuni di prima grandezza come Etta James, gli Who (Tommy, can you hear me? I’m the Acid Queen), i Beatles (The Beatles are comin’, they’re gonna hold your hand), John Lee Hooker, Art Pepper, Thelonious Monk, Charlie Parker, Don Henley, Glenn Frey, ad altri appartenerti a mondi diversi come Marylin Monroe, ad altri meno conosciuti come Dickey Betts o Wolfman Jack.

Rough and Rowdy Ways, dopo le divagazioni degli ultimi anni, ci restituisce un Dylan che fa “il Dylan”: integro, tosto e credibile che rafforzerà il legame con il pubblico che lo ha sempre amato.

A me il disco è piaciuto molto, più per le atmosfere, per il clima generale che non per il valore delle singole canzoni.

A 79 anni Dylan non si accontenta e, forse anche influenzato dal periodo in cui viviamo, pubblica un album certamente tra i suoi più importanti.

bob dylan

10 canzoni di Dylan da portare sulla mia isola deserta

Jokerman – tratto da Infidels (1983)
Hurricane – tratto da Desire (1976)
Tangled Up in blue – tratto da Blood on the tracks (1975)
Knockin’ on Heaven’s door – tratto da Pat Garrett and Billy the Kid (1973)
A Hard Rain A-Gonna fall – tratto da Freewheelin’ Bob Dylan (1963)
Like a Rolling Stone – tratto da Highway 61 Revisited (1965)
All Along the watchtower – tratto da John Wesley Harding (1967)
Just Like a Woman – tratto da Blonde on Blonde (1966)
Lay Lady Lay – tratto da Nashville Skyline (1969)
Changing of the Guards – tratto da Street Legal (1978)

I cinque “trentatré” da isola deserta

1) Blood on the tracks
2) Blonde on Blonde
3) Highway 61 Revisited
4) Oh Mercy
5) Time out of Mind

I tre “live”

Before the Flood
The Rolling Thunder Revue: the 1975 Live recordings
Bob Dylan at Budokan

Quando anche la cover ha un suo perché

1) The Jimi Hendrix Experience – All Along the watchtower
2) The Band – I Shall Be Released
3) Spirit – Like a Rolling Stone
4) Jeff Buckley – Just Like a Woman
5) Fabrizio De André – Avventura a Durango
6) The Byrds – Mr. Tambourine Man
7) Jason and the Scorchers – Absolutely Sweet Marie
8) Jerry Garcia band – Simple Twist of Fate
9) Guns ‘n Roses – Knockin’ On Heaven’s Door
10) Johnny Cash & June Carter – It Ain’t Me babe

 

https://www.youtube.com/watch?v=Rkr6TVnGtAM

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