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L'intervista

Marco, bergamasco che insegna ai detenuti di Opera: “L’emozione della prima Maturità”

Il 36enne professor Rovaris: “L’insegnamento in carcere? Un’esperienza umanamente arricchente”

“Sono emozionato, è la prima Maturità che affronto insieme ai miei studenti, anche se il fatto di non aver potuto avere alcun tipo di contatto ha messo un po’ in crisi me e i miei colleghi. Abbiamo immaginato quanto potesse essere pesante anche per gli alunni, abituati a vederci tutti i giorni”. La Maturità, affrontata durante la pandemia di Covid-19, è una triste novità per tutti, a causa delle limitazioni imposte. Ancor di più per chi, come Marco Rovaris, insegna all’interno del carcere milanese di Opera.

“Non abbiamo potuto fare lezioni online. Come i miei colleghi, l’unico legame che ho potuto avere in questi tre mesi di lockdown sono state le dispense, mandate ad ogni studente, con il materiale da studiare. Quello che è mancato di più, però, è il confronto quotidiano”.

Traspare, dalle parole di Marco Rovaris (36enne di Bergamo, una laurea magistrale in Lettere), la passione per l’insegnamento, in particolare verso il compito svolto all’interno del carcere milanese, raggiunto dopo un periodo di insegnamento trascorso alla casa circondariale di Bergamo. “Diciamo che la mia esperienza all’interno del mondo della scuola è un po’ particolare. Non ho mai insegnato in scuole diurne, con ragazzi adolescenti”. La prima esperienza, partendo dalla terza fascia, nel 2015 come supplente al carcere di Bergamo, dove ha insegnato per due anni. Poi il concorso per l’immissione in ruolo nel 2016 e, dopo un anno passato al serale dell’ITIS Paleocapa, il desiderio di tornare ad insegnare in carcere. “Nel 2018 ho chiesto il trasferimento, ed ora sono ad Opera, a Milano”.

Una scelta precisa, quella di Marco Rovaris, dettata, prima di tutto, dal desiderio di ricreare un rapporto insegnante-studente costruito sull’arricchimento personale comune, vissuto da ambo le parti. “Il confronto con persone adulte o comunque maggiorenni ha un percorso che nasce in modo opposto rispetto all’insegnamento agli adolescenti. Nessuna imposizione familiare, nessun obbligo statale: le persone a cui insegno sono di fronte a me perché l’hanno scelto, perché hanno desiderio di imparare, di conoscere, di arricchirsi culturalmente come persone”.

L’insegnamento in carcere amplifica ancora di più questo aspetto. “Nonostante anche gli adulti nei corsi serali avessero delle motivazioni forti per studiare, insegnare in carcere arricchisce molto l’aspetto umano e il rapporto fra persone. Insegnando italiano e storia, l’importanza verso il confronto traspare ancora di più. Diventa molto più arricchente dare vita a dibattiti con persone che, tra le varie motivazioni, hanno quella di ricrearsi una quotidianità ed abituarsi ad una nuova vita da trascorrere nella legalità, imparando a rispettare le regole”. Rovaris racconta l’amore verso il proprio lavoro, che porta avanti come una vera e propria passione, quasi una missione. “Anche per background, mi trovo molto vicino a queste persone. Aver vissuto diverse esperienze nella vita, mi ha consentito di deviare da una strada già predefinita, tracciata da altri. Questo mio essere è il punto fondamentale che mi ha spinto a tornare ad insegnare in carcere”.

Il Covid-19, in questo periodo, ha però stravolto tutto, sia per quanto riguarda l’insegnamento, sia per le tensioni che si sono manifestate all’interno delle carceri. “La scuola è finita e non me ne sono accorto – ha scritto Marco Rovaris in un post sui social network – Non ho salutato né visto nessuno. Non guardo in faccia i miei studenti dal 22 febbraio, nemmeno in videochat, né li ho sentiti. Gli aggiornamenti sono fumosi e dilazionati. Qualcuno è stato messo in isolamento durante le rivolte, qualcuno si è fatto male in modo serio, qualcuno è stato trasferito e forse non lo rivedrò più. Altro non è dato sapere. Si è spezzato un cordone che lascerà degli strascichi pesanti in un posto come quello dove lavoro, dove il concetto di tempo non esiste, ma è solo un macigno da trascinare a vuoto. Laddove il diritto allo studio sembra un vezzo da appiccicare a random a un discorso, per qualcuno è semplicemente aria da respirare. O almeno, dovrebbe”.

Con la diffusione delle notizie in merito alla pandemia, in diversi carceri d’Italia, tra cui quello di Bergamo e quello milanese di Opera, ci sono state proteste e momenti di tensione. “L’obiettivo di contingentare le notizie all’interno, secondo me, è stato quello di tutelare al massimo i carcerati, evitando di creare preoccupazioni ulteriori” – spiega Rovaris. – Il fatto che comunque nelle strutture ci siano televisioni e radio ha creato forte tensione, perché le notizie potevano, di fatto, circolare. In carcere si vive un po’ fuori dallo spazio e dal tempo, i detenuti probabilmente sono andati nel panico ed hanno reagito nelle maniere più svariate. Secondo me, tutto è nato dalla paura di non essere bene a conoscenza di ciò che stava accadendo fuori”.

Marco ha sottolineato poi l’importanza del diritto allo studio. Un diritto che, insieme ai suoi colleghi, vuole ribadire, portando avanti la propria missione, sempre nel rispetto delle regole. “Fortunatamente riusciamo a fare gli esami di maturità in presenza. Gli studenti si sono trovati davanti a noi, tutti muniti di mascherina, con dispenser di gel igienizzante, penne personalizzate e mascherine, rispettando naturalmente il distanziamento. Non possiamo consegnare personalmente i diplomi, per limitare i contatti: è un dispiacere non potersi congratulare di persona con alunni che abbiamo accompagnato lungo questo percorso. L’esame di maturità rimane sempre un momento chiave nella vita di tutti”. Un momento emozionante, da una parte o dall’altra delle sbarre.

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