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Verso il mondo del lavoro

Sofia: “La mia vita da neolaureata disabile: mi sento come se stessi procedendo alla cieca”

Sofia Brizio, da Bergamo a Cardiff per studiare, aveva scoperto che certe difficoltà da noi insormontabili lì erano pressoché inesistenti. Ma adesso, fuori dall’Università, molto è cambiato

Sofia Brizio la conosciamo bene noi di Bergamonews. È stata con noi per uno stage l’ultimo anno di liceo, al Sarpi di Bergamo, ed era intenta a passare tutti gli esami per potersi iscrivere all’Universita di Cardiff. Ora lì si è laureata. Tutto bene, tutto perfetto? Non proprio.

Qualche giorno fa ha pubblicato un articolo per The Graduate Club, una rivista inglese appena aperta su Instagram e dedicata ai neolaureati e alle loro preoccupazioni.
Un articolo nato fondamentalmente dalla sua esperienza nelle industrie creative britanniche, un settore in cui è molto più difficile entrare che in altri campi, soprattutto quando hai una disabilità.

Due anni fa Sofia ha raccontato su Bergamonews di come avesse trovato la propria indipendenza trasferendosi a Cardiff e di come le disparità che in Italia le erano sembrate così insormontabili, nella capitale gallese fossero pressoché inesistenti ( leggi ). Ora si è resa conto che una volta che non sei più sotto la campana di vetro dell’ambiente universitario, le cose cambiano.

Ecco il suo articolo

Dalla nascita ho una disabilità che mi rende difficile camminare e che fa sì che io mi stanchi spesso anche nelle attività quotidiane più semplici. Vi risparmierò il solito discorso patetico del tipo ‘nonostante tutto, la mia disabilità non mi ha mai fermato’ perché semplicemente non è vero. La mia disabilità mi ha impedito di fare molte cose e realizzare molti sogni; questo non per mia incapacità, quanto piuttosto per mancanza di accessibilità. Anche se il tempo trascorso all’università è stato un sogno e davvero non cambierei nulla, le cose cambiano quando ti ritrovi nel mondo reale.

Dato che la mia disabilità fisica è molto evidente, nel corso della mia carriera accademica e professionale finora ho sempre dovuto dimostrare di essere abbastanza brava da essermi davvero meritata di essere dov’ero. È una cosa normale in qualsiasi processo di selezione, ma nel mio caso, dimostrare la mia bravura consiste nel dimostrare non solo che sono competente, ma soprattutto che sono ‘normale’, che il fatto che le mie gambe non funzionano poi così bene non inficia la mia capacità di produrre lavoro di un certo spessore. Sembra incredibile, ma la maggior parte dei datori di lavoro con cui ho avuto a che fare finora mi hanno sempre guardato dall’alto in basso, convinti che la mia camminata traballante e il mio bisogno di pause frequenti abbiano in qualche modo un impatto negativo sulla mia abilità cognitiva. Per fortuna, la maggior parte di loro cambia idea anche solo parzialmente dopo aver parlato con me e aver letto i miei lavori.

Ma nella maggior parte dei casi, prima di riuscire ad arrivare a parlare con un datore di lavoro bisogna passare attraverso il processo di selezione di curriculum e lettera di presentazione. Quindi ecco che si presenta l’eterno dilemma di se e come parlare della mia disabilità. Durante il mio percorso di studentessa universitaria ho partecipato a innumerevoli programmi di tirocinio pensati appositamente per studenti disabili (che in Italia non esistono, NdT) in cui un tutor assegnato aveva il compito di mettersi in contatto con organizzazioni ‘disability friendly’ disponibili a offrire tirocini, e di parlare della disabilità del proprio protetto così che lo studente non si trovasse in difficoltà o imbarazzo.

Tutto molto bello, mi ha fatto sentire accettata e protetta finché non è arrivata la doccia fredda del mondo reale e mi sono dovuta arrangiare da sola. Alla fine del programma di tirocinio, il tutor mi ha fatto qualche domanda a cui dovevo rispondere su scala da uno a dieci per valutare quanto mi sentissi sicura di me in ambito lavorativo dopo l’esperienza di tirocinio. Le mie risposte sono state utilizzate per scopi statistici in un volantino professionale e poi più niente, sono stata spedita nel vero mondo del lavoro con nessuna rassicurazione se non una pacca sulla spalla d’incoraggiamento.

La realtà è che non esiste una formula magica per parlare della propria disabilità in ambito lavorativo. Tutti i tutor che ho avuto durante il mio percorso universitario mi hanno consigliato di parlare della mia disabilità solo quando strettamente necessario nella lettera di presentazione, ma mai nel CV, cosa che si è rivelata piuttosto difficile dato che la maggior parte del mio lavoro di giornalista si concentra sui diritti dei disabili. Ogni volta che ho cercato di fare presente la natura del mio lavoro e quindi la difficoltà di evitare di parlare della mia disabilità ovunque, ho sempre ricevuto sguardi smarriti e un consiglio molto generico di parlarne il prima possibile perché ‘prima ne parli, meglio è’.

Questo consiglio però è sempre venuto da persone ‘normodotate’ che non sapranno mai cosa significa vivere con una disabilità, indipendentemente da quanto possano essere qualificate professionalmente in materia. Dal canto mio, penso sia assurdo che sia considerata mia responsabilità trovare un modo per parlare della mia disabilità in maniera tale che il datore di lavoro normodotato di turno non si senta a disagio; o persino che la maggior parte della gente nel 2020 si senta ancora a disagio di fronte alla disabilità. Ho provato ad essere onesta fin dall’inizio, ma questo ha significato che molti datori di lavoro che non disponevano di edifici accessibili non si sono nemmeno sprecati a rispondermi.

Quindi la mia strategia è stata di non parlare mai della mia disabilità prima di aver ottenuto un colloquio o direttamente il lavoro in questione, a meno che io non sia assolutamente sicura che parlarne prima non costituisca uno svantaggio.

Ma anche così, mi sono trovata di fronte a così tante barriere negli ultimi anni che nella maggior parte dei casi non penso nemmeno a mandare il mio CV o presentazione per un lavoro. La verità è che mi sento sola e persa.

Sono stanca di fare fatica, procedere alla cieca, e ho paura che di questo passo un lavoro non lo troverò mai. Certo, ci sono leggi per le categorie protette che dovrebbero aiutarmi in questo senso, ma che senso hanno queste leggi in una società in cui devo costantemente provare di essere intelligente e competente lavorando il doppio di chi una disabilità non ce l’ha? Che senso ha tutto questo se nel 2020 non mi è ancora permesso di essere orgogliosa della mia disabilità e delle abilità che posso offrire a un datore di lavoro proprio perché sono disabile?

Fortunatamente abbiamo la possibilità di cambiare le cose con le nuove opportunità di smart working che questa pandemia ci sta presentando: per esempio, al momento sto facendo la volontaria come traduttrice per un’organizzazione, e per la prima volta in vita mia non è stato necessario che io dicessi che sono disabile.

Ovviamente sconsiglio di tenere nascosta la disabilità nel caso di un lavoro permanente; il mio è solo un esempio delle future opportunità che potremmo offrire come società, se solo fossimo disposti a cambiare la visione tradizionale del mondo del lavoro.

Uno studio del 2015 ha rivelato che nel Regno Unito, il 77% dei neolaureati decide di non rivelare la propria condizione di disabilità nel CV o lettera di presentazione per paura di subire discriminazione. Di fronte a questa situazione è chiaro che dobbiamo fare di più, le università devono fare di più.

Voglio vivere in un mondo in cui i datori di lavoro mi vedano per ciò che posso offrire e non per il modo in cui cammino. Non mi sembra di chiedere troppo.

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