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L'analisi

Le carceri esplodono: “Poliziotti penitenziari indagati, salgono sui tetti”

Sui tetti del carcere ieri, sui tetti del carcere oggi: non sono più i detenuti che vanno sui tetti, ma gli agenti. Pubblichiamo una riflessione di Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell'Amministrazione penitenziaria, in quiescenza, che ha vissuto in prima persona le epiche rivolte degli Anni Settanta e vive con sgomento quelle attuali.

Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza, ha vissuto in prima persona le epiche rivolte in carcere degli Anni Settanta. Il suo sguardo e la sua riflessione sulle rivolte in carcere di oggi.

Non mi stupisce questo tipo di comportamento dove, la dimostrazione del dissenso, si manifesta nel medesimo modo tra detenuti e custodi.

Quello che mi viene alla mente è lo sconcerto per i cittadini; per i protagonisti una situazione di abbandono, di mancanza di riferimenti, di punti di riferimento validi per confrontarsi e tutelarsi, infatti non ho notizie che sia intervenuta l’Amministrazione penitenziaria in modo partecipativo.

Salire sui tetti è stata considerata la prassi ultima e unica, certamente una prassi vincente, confermata da anni dai reclusi, quindi perché no per i custodi. Ma non è accettabile che parti avverse si contendano gli stessi strumenti di lotta. Diviene comprensibile però quando una persona si sente abbandonata, estrema ratio di chi sa di essere solo, di essere stato lasciato solo davanti al fatto, davanti alla responsabilità.

Il come è avvenuta la notifica (perlomeno come riferiscono i media, in divisa, all’ingresso del lavoro cioè fuori dal carcere), che dovrebbe essere un atto che deve avere il massimo della riservatezza e del rispetto della persona, invece si è trasformata in una condanna avvenuta, una spettacolarizzazione della giustizia. La colpa, presunta o meno, non fa venir meno il rispetto e la dignità, pertanto è davvero incomprensibile questa modalità di notifica di un avviso di garanzia, che viceversa dovrebbe rappresentare un momento di tutela.

Perché, colpevoli o innocenti che siano, l’avviso di garanzia è un modo immediato per farsi ascoltare, e per un imputato poi diventa la cosa più importante. Sui tetti si andava con una certa frequenza negli Anni Settanta per protestare contro maltrattamenti, violenze, e sollecitare i politici ad approvare la riforma delle carcere, la cui gestione non ha nulla in confronto all’attuale per quanto peggiore sia.

Ogni contesto e struttura ha sempre due parti nette e ben definite: gestori e clienti. Nel carceri queste due parti si sono andate negli anni a definirsi in modo sempre più forte. All’intento, almeno credo, di dare un’offerta di migliori servizi, come voleva l’Ordinamento penitenziario del 1975. Il personale di custodia da agenti di custodia (secondini), con la legge del 1991 ha voluto affermarsi come corpo in divisa, ma con questo passaggio anziché affermarsi nella sua specificità come custode specializzato, è andato negli anni a perdere questa connotazione per realizzarsi invece fuori dei reparti carcerari e dalle strutture carcere. Per cui chi lavora in reparto, è sempre considerato il peius mentre il meius è operare fuori del reparto: un errore che il Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria avrebbe pagato col tempo, ed è quello che è avvenuto.

Non stupiamoci di vedere la polizia penitenziaria di reparto sui tetti, perché è abbandonata a se stessa, quasi che il lavorare in carcere, a contatto coi detenuti, è la cosa meno gratificante, quasi una punizione, mentre dovrebbe essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria.
L’agente di reparto è il solo al momento di intervenire in una situazione di rivolta, il solo a pagarne le conseguenze, il solo a difendersi.

Questa è una azione che dovrebbe essere gestita dal comandante su disposizioni del direttore, che non sembrano compromessi.
Allora sul tetto a gridare la loro solitudine, o le loro dignità violata, neppure i sindacati sono stati ritenuti meritevoli di attenzione, loro soli come lo sono i detenuti, quei detenuti che avrebbero offeso. Si perché questi hanno dovuto affrontare i detenuti, rivestendo un ruolo tra i più importanti dello stato democratico: custodire. Loro custodi senza rispetto, loro custodi senza potere di fare; che si condanna ma si chiede contemporaneamente di fare, di custodire.

Sa tutto di assurdo, non tanto sulla possibilità di violenze fatte dai custodi ai reclusi, ma perché già condannati, e condannati ad espiare in contemporanea al dovere di esercitare un mandato istituzionale.

Sul tetto disperati per essere ascoltati. Da chi? Perché? Per cosa? Chi nel formulare l’avviso di reato ha pensato alla incompatibilità tra essere contemporaneamente inquisiti e custodi? L’Amministrazione era all’oscuro di tutto? Non era un fatto singolo ma un fatto che è relativo a 40 persone come poteva essere sconosciuto? Se c’è stato un corpo a corpo durante le rivolte, i verbali sono stati stilati come informativa ad altre autorità o come denuncia?

Quello che è accaduto nei giorni scorsi è un fatto gravissimo che non può passare per mera spettacolarizzazione. È un fatto unico e atipico, nuovo, ma conferma l’incapacità dei vertici di capire le ragioni del malcontento. Non sanno perché estranei al contesto, e chi non sa deve chiedere a chi è lì e magari da anni. Occorre la presenza di conosce il contesto non nella teoria, ma nella sua modalità di attuarsi nei suoi interstizi e pieghe del potere e degli interessi che coprono. Conoscere le persone, le cose, le consuetudini, specie quelle che dettano legge ma non sono

Bisogna cambiare tutto se si verificano fatti come gli attuali credo di sì. Non vuol dire cambiare un nome è portare una persona che conosca i meccanismi e metta fine ad una gestione come attuale in modo forte ed immediato.

Sono troppe le spinte alla polizia penitenziaria per eseguire attività esterne e a scapito di quelle naturali interne reparto: io proporrei in analogia con altri paesi europei (Francia) di effettuare istituzionalmente questo scindersi in due: una parte per attività interna e di reparto carcerario, assimilarsi alla Polizia di Stato, mentre la parte esterna, assimilarla al Corpo dei Carabinieri per il controllo del territorio di tutti quelli che sono in misura alternativa al carcere, soluzione da attuare con l’Ente locale ed il Terzo Settore.

Questo tipo di soluzione non è nuova ed è stata attuata dal Ministero del Lavoro per gli ex Uffici di collocamento, già 30 anni fa. A mio avviso si avrebbe un risparmio economico e un servizio più attento.

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