Quando il 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone veniva ucciso dalla mafia a Palermo, Lea Garofalo era una ragazza di 18 anni piena di sogni che dall’altra parte dello Stretto, nella provincia di Crotone, stava iniziando a ribellarsi all”ndrangheta, cercando anche di far convertire il suo compagno, Carlo Cosco, esponente di un clan locale che poi nel 2009 la uccise. La strage di Capaci diede ulteriore slancio alla sua ribellione.
Alla fine la giovane, nel 1996, decise di lasciare quell’uomo e la sua amata Calabria per scappare al Nord con la sua bimba piccola, Denise, nata cinque anni prima. Prima a Milano e poi a Bergamo, dove le due furono accolte in un pensionato di suore e Lea cominciò a lavorare come barista.
Nel 2000 un incendio in via Mosè del Brolo distrusse cinque auto, tra cui la sua. Un primo avvertimento che non la fermò quando poi scelse di diventare collaboratrice di giustizia e inguaiare anche il compagno, che dopo una serie di intimidazioni nove anni dopo la ammazzò a Milano.
Un anno prima di morire, la donna aveva conosciuto don Ciotti e Libera, ed era diventata amica del legale Vincenza Rando, vice presidente dell’associazione contro le mafie, che poi tutelò la figlia al processo contro i Cosco. Nella Giornata della Legalità 2020, l’avvocato ripercorre la vita della Garofalo e ricorda i loro momenti insieme.
Dottoressa Rando, chi era Lea Garofalo?
Era una donna sveglia e coraggiosa, che ha pagato con la morte la sua sete di giustizia.
Si ricorda quando vi siete conosciute?
Certo, era il 2008. Al temine di un incontro pubblico organizzato da Libera a Firenze, si avvicinò al nostro fondatore don Luigi Ciotti in cerca di sostegno nella sua battaglia contro la criminalità. Io ero la responsabile dell’ufficio legale dell’associazione. Da lì iniziammo la nostra conoscenza.
Cosa le raccontò?
Mi parlò della sua vita, di un sacco di cose che le erano successe e che a me, sinceramente, all’epoca sembravano irreali. Ma più mi dava elementi, più mi rendevo conto che purtroppo era tutto vero.
Anche della sua esperienza a Bergamo?
Mi disse che lì si era trovata bene. In particolare ricordava di una suora che accolse senza pregiudizi lei e Denise, che lì aveva iniziato le scuole elementari. Anche la ragazza conserva bei ricordi, di una città fredda a livello climatico ma calda per il cuore della gente.
Cosa pensò quando qui le bruciarono l’auto?
Era una persona che sapeva leggere bene questi segnali e capì subito che poteva essere stata una vendetta portata a termine da qualcuno legato al compagno. Proprio qualche giorno era scesa in Calabria e gli aveva detto che aveva intenzione di chiudere definitivamente la loro relazione.
Che rapporto aveva con quell’uomo?
Si innamorò di lui da giovanissima e gli voleva molto bene. Desiderava che anche lui rompesse con quel sistema criminale e provò a convincerlo in tutti i modi. Senza riuscirci. Da quando le bruciarono la sua vecchia macchina, fu messa sotto protezione.
La testimonianza della figlia al processo contro il padre fu determinante per la sua condanna all’ergastolo nel 2012. Ora come vive Denise?
È una ragazza di 28 anni, orfana della madre e con il padre in carcere. Vive sotto protezione come testimone di giustizia, ma spera un giorno di poter cambiare identità e tornare a essere una persona libera. Quando ci sentiamo, tra le altre cose, mi dice che le piacerebbe anche tornare a Bergamo per ringraziare le persone che da piccola avevano accolto lei e sua mamma.
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Al Nord e anche a Bergamo c’è una presenza importante di famiglie ormai insediate con l’obiettivo di infiltrarsi nell’economia legale, grazie alla numerosa presenza di aziende che poi consentono di riciclare il denaro sporco.
Quali sono i settori più a rischio?
L’edilizia, il sistema sanitario e lo smaltimento rifiuti. Senza dimenticare la ristorazione. Mi preoccupano le relazioni con la politica. Poi c’è la droga. Anche Lea si era resa conto che qualcosa non andava.
Cioè?
Come ho detto era una persona sveglia. Mi raccontò che lei già nel 1996 capì che la mafia era arrivata anche a Bergamo.
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