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A bordo campo

Angel Bipendu Kalela, tra rosario e stetoscopio un’unica missione: aiutare

Lasciate le navi del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, dove si è impegnata negli anni dal 2016 al 2018, la suora medico si è trasferita da ormai due mesi sugli avamposti della lotta al coronavirus, in una delle zone più colpite: Bergamo

Ha conosciuto diverse facce dell’emergenza: per due anni è stata sulle navi della Guardia Costiera per il salvataggio dei migranti in pericolo di vita nella traversata del Mediterraneo dalla Libia verso l’Italia. Suora e medico, Angel Bipendu Kalela, 46 anni, ha dovuto suturare ferite da torture, assistere partorienti, curare casi di ipotermia o scottature da sole. Un nodo le serra ancora la voce in gola quando ripensa ai profughi annegati, al recupero delle salme e al tentativo di risalire alla loro identità e provenienza dai pochi ricordi dei sopravvissuti.

Lasciate le navi del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, dove si è impegnata negli anni dal 2016 al 2018, si è trasferita da ormai due mesi sugli avamposti della lotta al coronavirus, in una delle zone più colpite: Bergamo.

Suor Angel, una vita da samaritana proprio estrema per fedeltà al proposito di aiutare a oltranza. Sempre in lotta, dalla parte della vita, vedendo purtroppo spesso la morte accanto…

Con i migranti ho conosciuto una realtà, qui sto vivendone un’altra. Ciò che sto vedendo adesso è più drammatico rispetto ai rischi che assumono quanti si mettono in mare per venire in Europa. Qui ci sono migliaia e migliaia di persone malate, con molti morti. Chi si imbarca sa a cosa va incontro; con il coronavirus si lotta contro un virus occulto, ignoto e rapidamente mutevole: ora si sa qualcosa, prima niente.

Medico e suora. Come vive questa doppia dimensione? In che rapporto mette le medicine e le preghiere?

Prima delle medicine per me viene sempre la preghiera. Il Signore è capace di compiere un miracolo dove per noi è inimmaginabile. E i miracoli esistono. Noi non possiamo o non vogliamo capire, ma dobbiamo credere. Per me sono due facce della stessa medaglia, la vita professionale e la fede. Prima di qualsiasi intervento, io prego, chiedo a Dio di darmi la forza di fare bene ciò che mi appresto ad affrontare in quel momento. Le due dimensioni non vanno disgiunte e non entrano neppure in contrasto. Io devo saper dare il miglior aiuto al prossimo che ha bisogno di me in quel momento: fisicamente, moralmente, spiritualmente.

Angel bipendu kalela suora medico Coronavirus

In aggiunta alla terapia e ai farmaci, come reagiscono i malati quando sanno che lei è anche suora?

Occorre distinguere tra prima dell’attuale emergenza e adesso. Quando incontro e visito gli ammalati in ambulatorio, alla Guardia Medica di Villa d’Almè, si capisce subito chi sono: medico e suora e il rapporto parte in chiarezza. Con il “coronavirus” mi reco nelle case di chi è risultato positivo o di chi è stato dimesso. I pazienti mi vedono già bardata, con visiera, mascherina, guanti e molti non sanno che io sono anche suora. Lo dico al termine, quando mi presento. Ho dovuto costatare decessi, stare con i parenti, consolarli. A volte sono i familiari che mi chiedono di recitare una preghiera insieme e rimangono consolati. Molti morti di “covid-19” negli ospedali, in isolamento, non hanno potuto ricevere i sacramenti. Anche questo è un cruccio quotidiano. Mi tormenta l’afflizione che prova chi deve morire in un deserto affettivo e spirituale.

Nella sua supplica per il coronavirus in San Pietro, a fine marzo, il Papa ha detto che forse l’uomo si è illuso di poter vivere da sano in un mondo malato…

Solo Dio sa cosa sta succedendo. È vero che in molti si sono fatti questa idea di poter dominare tutto in virtù delle conoscenze della scienza e della tecnologia. Dobbiamo cercare di cogliere l’essenziale della vita.

Che cosa la colpisce di più in questa emergenza del coronavirus?

Senz’altro la solitudine, la sofferenza, un diffuso silenzio. Le persone si ritrovano in un tempo sospeso, carico di dubbi. Anche i bambini sanno che c’è il coronavirus e stanno pagando un elevato prezzo, costretti a stare da soli, al chiuso, senza poter respirare la gioia e la libertà della primavera con i compagni di scuola e di gioco.

Lei ha parlato delle solitudini che feriscono l’uomo d’oggi. Solitudini dappertutto e ora solitudine estrema anche nella malattia e nel morire. Niente funerali e impossibilità di vicinanza fisica ai parenti che piangono un distacco…

Certo. Pesa moltissimo l’impossibilità di poter elaborare il lutto, di rendere l’estremo saluto a un congiunto o a una persona cara. È lacerante la mancanza degli ultimi gesti di tenerezza, delle parole che suggellano una vita. Ci ritroviamo in una situazione dove uno non può avvicinarsi all’altro, davanti a una barriera invalicabile di incomunicabilità. Marito e moglie, spesso anziani, che si sono ritrovati separati per forza dentro la stessa casa o allo stesso ospedale e qualcuno è anche morto senza che l’altro sapesse. È un disastro. E poi quei camion militari che trasportavano bare verso destinazioni ignote e dover pensare che lì ci può essere anche mio papà o mia mamma. Inverosimile e agghiacciante.

Papa Giovanni diceva che “c’è un dolore sociale che non innalza l’uomo ma lo profana”. Questo dolore oggi è molto diffuso…

Ho la sensazione che non abbiamo ancora realizzato a fondo ciò che sta succedendo e ciò che stiamo subendo in una sorta di buio e di incertezza che ci avvolgono. La gente non sa come andrà a finire…

Angel Bipendu Kalela suora medico coronavirus

L’uomo della civiltà occidentale che cosa dovrebbe soprattutto imparare?

Che il mondo deve essere unito. Siamo tutti creature di Dio. Illusorio pensare di salvarsi da soli. Ciascuno di noi avverte delle fragilità, preoccupazioni, paure. Si superano più facilmente insieme.

Che cos’è la paura per lei? E che cosa le fa più paura in questo tempo che stiamo vivendo?

Sento la paura di non riuscire a fare fino in fondo ciò che devo come medico, come suora… Non ho alcuna paura di essere contaminata: avessi avuto questo timore, non mi sarei distaccata dalla comunità di suore, dove vivevo per svolgere la mia missione.

Sono in molti a sostenere che questa emergenza cambierà il nostro modo di vivere. L’umanità ha vissuto spesso grandi catastrofi, pensiamo solo al Novecento – dalla “Spagnola” alle due guerre mondiali e ai campi di sterminio – e a questi primi vent’anni – dalle Torri Gemelle agli tsunami – poi però quando finisce la tempesta in genere si rimuove in fretta e si riprende la vita di prima…

Penso sarà difficile tornare alla vita di prima, senza sentirsi in alcun modo toccati o segnati da questa pandemia. Vivremo un altro tipo di relazioni, all’insegna della diffidenza, della distanza di sicurezza, perché non si sa mai… Magari potremmo rimanere contagiati. Un colpo di tosse, uno starnuto e scattano apprensioni. Quando ci riabbracceremo e ci saluteremo come prima? Non dimentichiamo che più stiamo distanti, più disperdiamo il calore.

Da suora e da medico che consiglio suggerisce per dare un senso al tempo, quando usciremo dal tunnel?

Essere prima di tutto consapevoli dell’importanza della vita che è un dono ricevuto gratuitamente. La vita è sacra e dobbiamo conservarla in tutta la sua sacralità. Ed è un dono che poi dobbiamo trasmettere agli altri. Uscendo da questa emergenza, ciascuno porterà con sé qualche segno di questo passaggio epocale: il compito decisivo per ciascuno e per la comunità sarà però di andare avanti.

Tra fede, speranza e carità, quale sceglie e perché?

Senza esitazione, la carità, perché mette insieme anche la fede e la speranza. Se manca la carità, non c’è niente.

Qual è la sua più alta forma di speranza?

Spero nella risurrezione dalla morte. È la meta della mia vita cristiana.

L’ultimo pensiero, la sera, prima di addormentarsi e il primo del mattino al risveglio?

Quando mi corico, metto nelle mani di Dio la mia giornata e quando mi sveglio Gli riaffido il mio percorso perché mi accompagni.

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