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La panoramica

Dalla Gioconda agli autoritratti di Van Gogh: gli occhi specchio dell’anima

In ogni epoca gli occhi non sono solo una parte del viso o un dettaglio di un'opera d'arte: sono il punto di contatto tra l'artista, l'opera e chi la osserva

Aveva ragione Platone: gli occhi sono lo specchio dell’anima. Come il grande filoso greco ha scritto nel Fedro, costituiscono “il più chiaro dei sensi che si possiede, brillante di una superiore chiarezza”, riflettono in modo immediato e sincero le nostre emozioni dando un’idea inequivocabile di come ci sentiamo in un determinato momento.

Hanno una notevole capacità comunicativa: possono esprimere felicità, malinconia o inquietudine, permettendo a chi ci è vicino di capire come stiamo. Al tempo stesso, lo sguardo è in grado di indagare, curare e proteggere, incoraggiare, rimproverare o infondere sicurezza… ha un potere magnetico, trascinante e per certi versi magico.

L’uomo ne è sempre stato affascinato e, per questo, nel corso dei secoli, ha raffigurato gli occhi innumerevoli volte: dalle rappresentazioni più remote ai più celebri ritratti, la storia dell’arte è costellata di sguardi a cui sono stati attribuiti i più diversi significati.
Nell’antichità era diffusa l’abitudine di utilizzare l’occhio in funzione dell’intero individuo, perchè simboleggiava la sede della vita e della personalità. È stato così per numerose divinità: l’obiettivo era comunicare sinteticamente al fedele i concetti dell’onniscienza e dell’onnipresenza di dio.

ANTICHITA’ – Nelle civiltà mesopotamiche erano un simbolo divino: i loro idoli avevano occhi immensi e in alcuni casi ne avevano più di due. Il significato divino era comune anche tra gli antichi egizi anche se la modalità era differente: a loro bastava un unico occhio per raffigurare , il dio del sole, e in effetti la forma del disco solare ricorda quella della pupilla.

Nel Libro dei Morti, Rā sostiene di dimorare “nell’occhio divino” e anche Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, accenna a questa antichissima concezione: “Indubbiamente l’anima abita negli occhi. Con l’anima vediamo, con l’anima distinguiamo: gli occhi, come fossero canali ricevono da lei la capacità visiva, e se ne fanno tramite. In tutti gli animali nessuna parte del corpo indica lo stato d’animo meglio degli occhi, ma soprattutto nell’uomo”.

Nell’antica Grecia, si rimane particolarmente colpiti dagli occhi di Medusa: secondo il mito, aveva il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il suo sguardo e generalmente viene raffigurata con il viso largo e gli occhi fissi, mentre il capo è circondato da serpenti.

Medusa

Un’altra figura mitologica era la dea Persuasione, il cui epiteto di riconoscimento e identificazione era proprio “dal dolce sguardo”: le sue arti erano gli occhi e il suo campo di azione privilegiato la seduzione.

Gli scultori erano soliti costruire statue non solo con i piedi uniti o saldati al corpo, ma soprattutto “cieche”, con “gli occhi serrati”. Sembra che sia stato Dedalo il primo a separare i piedi, conferendo alle figure l’illusione del movimento, e soprattutto pare che sia stato anche il primo a “spalancare i loro occhi”. Finalmente quelle statue potevano vedere e questo deve essere stato come dare loro la vita.

All’occhio veniva attribuita anche una funzione di contrasto alla cattiva sorte: si può notare osservando alcuni vasi greci del sesto secolo a.C., oppure come ex-voto greci e romani.

Nel mondo classico, poi, un buon oratore doveva saper manifestare la capacità di atteggiare il volto, tenendo alti e severi gli occhi: lo sguardo basso o continuamente ondivago era avvertito come sintomo di paura e mancanza di coraggio. Nel De oratore, Cicerone fa pronunciare a Crasso un elogio del potere espressivo dell’occhio, in quanto specchio dell’anima: “Tutto sta nel viso, e nel viso, gli occhi hanno un ruolo di primo piano […] I gesti infatti significano l’animo e il volto è l’immagine dell’anima, gli occhi ne sono le spie: questa è l’unica parte del corpo che possa assumere tanti atteggiamenti diversi, quanti i moti dell’animo. Attraverso gli occhi – guardando fisso o con dolcezza, minacciosamente o con gioia – esprimiamo i sentimenti dell’animo, in maniera conforme al tenore del discorso. La natura ci diede gli occhi per significare i nostri stati d’animo, per cui, nel gestire (un discorso), dopo la voce conta il volto (vultus) ed esso è dominato dagli occhi”.

Gli antichi Romani consideravano fondamentale la rappresentazione artistica del carattere e delle inclinazioni dell’anima: il personaggio disegnato o scolpito avrebbe dovuto immediatamente rivelare il suo carattere a chi lo osservava. Veniva posta attenzione soprattutto sulle grandi definizioni della personalità come l’essere coraggioso, eroico, pavido, mite, perspicace, nobile o caritatevole.

IL PERIODO RINASCIMENTALE – Nel Rinascimento, invece, si va oltre a questa caratterizzazione esprimendo i “moti dell’anima”. Con questa espressione Leonardo Da Vinci pone l’accento non solo sui tratti fondamentali di un carattere ma soprattutto sui pensieri e i sentimenti… insomma la dimensione interiore. Così è nato il “ritratto naturale”, che presenta la persona nella sua piena naturalezza sentimentale e psicologica. Nacque così l’idea moderna che la donna e l’uomo non fossero più classificabili come parte integrante di un unico gruppo bensì che ogni individuo sebbene simile ad altri, fosse unico nel suo genere. Ne sono esempi i dipinti relativi ai personaggi della corte sforzesca, dal “Musico”, passando attraverso la “Belle Ferroniére” per giungere alla “Dama con l’ermellino”.

Il ritratto della Gioconda, emblematico della sua arte, è avvolto da un intrigante alone di mistero: non si conosce con certezza il nome della donna raffigurata, ma soprattutto non si sa comprendere appieno il significato dello sguardo e del sorriso, che risultano enigmatici. La posizione della figura, non simmetrica ma di tre quarti, esprime una pacata naturalezza. Busto, testa e braccia sono in posizione leggermente ruotate, tanto che la figura sembra muoversi impercettibilmente e comunicare con chi la guarda. Il volto ha un’espressione indefinibile, fra il lieto e il malinconico: Leonardo vuol esprimere, infatti, anche “i moti dell’anima”.

A partire dal Rinascimento, poi, nell’iconografia cristiana l’occhio scrutatore con cui nell’antichità era simboleggiato Dio, venne disegnato dentro un triangolo equilatero, con riferimento al mistero della Trinità. Questa figura geometrica corrisponde al numero 3, che universalmente rappresenta la perfezione.

NEI SECOLI SCORSI – Nell’Ottocento il pittore francese Odilon Redon dà un significato particolare all’occhio, facendolo diventare una mongolfiera alludendo al viaggio della mente verso una dimensione superiore pronta a esplorare nuovi mondi.

Autoritratto con cappello di feltro grigio

Vincent van Gogh negli autoritratti focalizza nei suoi occhi tutto il suo dramma esistenziale. Questi quadri non gli servirono soltanto come esercizio pittorico, ma cercò di imprimere nella tela tutto il proprio malessere, cogliendo ogni volta diversi lati di sé e della propria personalità. Nell'”Autoritratto con cappello di feltro”, realizzato nell’estate 1887, si ritrae con gli abiti di un tipico parigino – cappello, giacca e cravatta – e con uno sguardo severo e attento che sembra essere proiettato su qualcosa che si trova davanti a lui. L’apparente calma, comunicata dallo sguardo e dall’espressione del viso, contrastano con l’agitazione e il movimento delle pennellate.

Nei dipinti durante il periodo di reclusione al manicomio di Saint-Rémy, emerge ancor di più il bisogno di introspezione. L’artista pone al centro il suo sguardo intento a cercare quello dell’osservatore, sono gli occhi che rispecchiano l’anima di un uomo al quale è stata apposta l’etichetta di folle. Nell’Autoritratto del 1889 si evince in modo eloquente il suo sforzo di apparire controllato e calmo.

È contraddistinto da straordinarie doti comunicative anche il pittore austriaco Gustav Klimt, che nel “Bacio” dipinge in modo sognante e innamorato gli occhi della donna immersa in quel caldo abbraccio: la donna è stata spesso protagonista delle sue opere nella quale le figure femminili sono spesso eleganti, ammalianti, altezzose in quanto consapevoli della loro bellezza e questo è dato soprattutto visibile dal loro sguardo.

Arrivando al Novecento, accanto ai ritratti “tradizionali”, sono riapparsi gli occhi estrapolati dal contesto del volto in un’incredibile affinità con quelli delle civiltà più antiche, carichi di simbolismi. In molte opere surrealiste, per esempio, Salvador Dalì ha fatto dell’occhio una vera ossessione utilizzandolo in maniera ironica e spiazzante per la creazione di scenografie, sculture, scatti fotografici e film come “Io ti salverò” di Hitchcock con scene di Dalì e “Un chien andalou (un cane Andaluso)” che il pittore fece insieme al regista Luis Buñuel, nel 1928, con il famoso taglio dell’occhio: la scena è emblematica della rivoluzione visiva surrealista, che intende squarciare l’occhio dello spettatore per fargli vedere, anche a costo di grandi sofferenze, tutto quello che non ha mai visto e forse non ha mai voluto vedere.

Un’operazione simile è stata realizzata dal pittore, fotografo e grafico statunitense Man Ray, esponente del movimento Surrealista e Dadaista, con il metronomo con occhio, ironicamente denominato “Oggetto da distruggere” (1923), che mostra un occhio femminile ritagliato da una foto in bianco e nero che oscilla in modo inquietante seguendo il ritmo dell’asta.

L’occhio è centrale anche per un altro surrealista, il pittore belga Rene Magritte, che nel dipinto “Il falso specchio” ritrae un grande occhio in cui l’iride è una finestra circolare su un cielo attraversato da nuvole bianche. La pupilla è raffigurata come una sorta di sole nero che domina la scena. C’è un’ambiguità di fondo: a seconda delle interpretazioni, il cielo è un riflesso del mondo esterno sulla superficie dell’iride oppure è il riflesso di un’immagine interiore del soggetto a cui l’occhio appartiene.

Non si può non citare, poi, l'”Occhio di Escher” (1946): l’incisore e grafico olandese Maurits Cornelis Escher con quest’opera ha rappresentato il suo stesso occhio e all’interno della pupilla vi è un teschio come riferimento esplicito alla tragicità del destino umano, quindi alla morte.

Successivamente, gli occhi vengono spesso valorizzati come interfaccia tra il mondo esterno e l’interiorità della persona perché, come scrisse il poeta Milan Kundera: “L’occhio è la finestra dell’anima, il fulcro della bellezza del volto, il luogo in cui si concentra l’identità di un individuo”. Per questo, nei suoi ritratti, spesso il pittore Amedeo Modigliani dipingeva gli occhi vuoti e senza le iridi sostenendo: “Quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi”. Inoltre, in diversi capolavori, ha raffigurato la persona con un occhio chiuso perchè “con uno guardi il mondo, con l’altro guardi in te stesso”.

Donna in nero

Per esempio, in “Donna in nero” (1917), “Ritratto di Jeanne Hébuterne” (1918), “Ritratto di donna col cappello” (1918) e “Autoritratto” (1919) si nota che gli occhi sono dipinti senza pupille. Sembra che, essendo così abile a carpire l’essenza dello stato d’animo del soggetto ritratto, Modigliani voglia in qualche modo frenare la propria analisi, imponendosi un limite come forma di rispetto: non sentendosi in diritto di scandagliare troppo a fondo l’umanità di chi si accinge a ritrarre, l’artista sceglie di non dipingergli gli occhi, notoriamente specchio dell’anima.

Analogamente, sono note per i volti senza sguardo i dipinti di Henry Matisse: nei suoi ritratti la figura umana viene ridotta ai suoi elementi essenziali e, in particolare, il viso è sempre, o quasi, caratterizzato proprio dall’assenza degli occhi, da un buio senza fondo. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata a quadri come “Donna in verde con garofano” (1909), “Ritratto della moglie dell’artista” (1912-1913), “Ritratto di Auguste Pellerin” (1917) e “Autoritratto” (1918). In questi lavori è lo sguardo ciò che colpisce, o meglio, quello che dello sguardo resta: il suo vuoto. I volti sono maschere senza espressività; le immagini, non più in grado di “guardare”, non possono più raccontare la loro anima e, interrompendo la comunicazione con la realtà, diventano “mute”.

I lavori di questi due autori, dunque, trasmettono un senso di inquietudine per quei volti che vorrebbero “parlarci” delle loro emozioni e del loro vissuto, ma non possono farlo.

In ogni epoca, sicuramente, gli occhi non sono solo una parte del viso o un dettaglio di un’opera d’arte: sono il punto di contatto tra l’artista, l’opera e chi la osserva.

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