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Lettere

La testimonianza

“Domenica di marzo all’ospedale di Piario: intorno a me la gente continuava a morire”

Barbara Giudici è infermiera all'ospedale di Piario, in Valseriana. Ci racconta il suo turno in una infernale domenica di marzo, il marzo del 2020 nella vallata più martoriata nella provincia più colpita dal coronavirus.

Barbara Giudici è infermiera all’ospedale di Piario, in Valseriana. Ci racconta il suo turno al Pronto soccorso in una infernale domenica di marzo, il marzo del 2020 nella vallata più martoriata nella provincia più colpita dal coronavirus. Una testimonianza che fa venire la pelle d’oca.

Sono un’infermiera che lavora da ben 17 anni al pronto soccorso dell’ospedale Locatelli di Piario. Uno dei Pronto soccorso in trincea nella lotta al coronavirus della Valle Seriana, una delle zone più colpite in Lombardia insieme a Codogno. Di noi si è sentito parlare poco, siamo un piccolo ospedale ubicato in cima alla valle, ma vi assicuro che lo tsunami coronavirus c’è stato anche qui.

Tsunami non è una parola oggi di moda, è la descrizione reale di ciò che è successo, un’onda incredibile di tante persone, disperate, colpite da grave insufficienza respiratoria.

Mai avrei pensato nella mia vita, come tutti gli operatori sanitari penso, di trovarmi in un dramma simile.

Non avevo intenzione di scrivere una testimonianza, volevo dimenticare quanto prima ciò che abbiamo dovuto fare/sopportare nel mese di marzo. Già perché il nostro lavoro routinario è stato stravolto, quello che è stato fatto negli ospedali è un triage di guerra, cioè quando il numero di “feriti” è troppo elevato si sceglie di curare coloro che hanno qualche possibilità di ripresa.

Poi ho letto un articolo scritto da un collega e sono andata in crisi, i ricordi veloci e dirompenti hanno affollato di nuovo la mia mente e ho capito che è importante parlarne e non insabbiare gli avvenimenti.

Voglio descrivere il mio vissuto perché spero che la gente capisca quanto è stato devastante il coronavirus, e perché bisogna agire di conseguenza in determinati modi. Capisco che ognuno abbia la propria opinione in base alla propria situazione personale/lavorativa, ma se vogliamo sconfiggere questo virus ancora in parte sconosciuto dobbiamo attenerci a delle regole.

Siamo tutti sulla stessa barca e il comportamento di taluni non può far affondare tutti.

Nel mese di marzo ho vissuto tante giornate terribili, ma voglio descriverne una tra le tante terribili, quella che più continua a tormentarmi.

È una domenica mattina di marzo.

Il nostro Pronto soccorso nella routine è strutturato con 2 box di visita, un box per le urgenze (shock room), 3 posti di degenza breve (astanteria) e 2 posti di attesa visita per barellati. Al mio arrivo in reparto quella domenica abbiamo ben 20 persone ubicate in tutto il PS, si è dovuto creare uno stanzone con 8 posti nella camera calda, laddove si scaricavano i pazienti dalle ambulanze. Bisogna poi calcolare le persone che continuano ad arrivare: la medicina e chirurgia al momento sono sature.

I colleghi della notte son ben felici di vederci per avere un attimo di respiro. Sono in turno con L., non la vedrò per quasi tutto il turno perché di mansione ambulanza, poveretta dovrà affrontare più casi impegnativi sul territorio. La nostra Operatrice socio-sanitaria di turno non sta bene e si vede, ma insiste per fermarsi ad aiutarci perché la situazione si dimostra già impegnativa. È proprio cara. Poi c’è S., neoassunta per questa emergenza, sveglia ed eccezionale, correrà tutto il turno seguendo le mie indicazioni. Il medico di guardia è risoluto, ci confrontiamo sul da farsi, ha tristezza e incredulità negli occhi pure lui, ma deve agire in questo caos.

Iniziamo subito con la somministrazione della terapia. Poi tentiamo di dare un po’ di colazione a queste povere persone, hanno bisogno di un minimo di sostegno e routine.

Passo in astanteria al letto n.1, c’è una persona in condizioni critiche già dalla notte. Purtroppo lo trovo deceduto, tutto solo. Mi viene un senso di angoscia, gli do una carezza sul viso (è l’unica cosa che farò con tutte le persone morte) e gli sussurro che “sicuramente andrà in un luogo migliore di questo mondo”. Avviso il medico di guardia per le pratiche burocratiche. Con l’aiuto della mia collega rimuoviamo gli effetti di valore e li poniamo nella nostra cassaforte in una busta. È importante che tornino ai suoi cari. Sistemiamo la salma e partiamo con la barella verso la camera mortuaria nel seminterrato. Apriamo la porta e in quella esigua stanzetta ci ritroviamo già 8 salme (dove di solito al massimo ne trovi una), per fortuna riusciamo a sistemare anche la nostra barella.

infermiera ospedale piario coronavirus barbara giudici

Non mi andava di mettermi pure a spostare tutte le barelle con le salme nella camera ardente accanto (dove già c’erano bare in attesa di tumulazione) altrimenti l’avrei fatto… potevo avere scelta in quella situazione???

Torniamo in reparto. In shock room c’è una persona con insufficienza respiratoria, già posizionato il casco CPap all’arrivo in Pronto soccorso. Lo portiamo in Tac a completamento delle indagini: ha una polmonite bilaterale massiva, non ha chance. Lo posizioniamo in astanteria nel letto n.1, è l’unico posto libero. Satura malissimo, avviso il medico di guardia perché la situazione sta peggiorando velocemente.

Avvisiamo i parenti della situazione critica e concordiamo terapia di accompagnamento. Questa persona mi guarda con occhi speranzosi, mi chiede come va la TAC: gli dico una mezza bugia “Si c’è la polmonite, ma vedrà che con questo casco pian piano migliorerà…”. E poi ancora una mezza bugia “Abbiamo avvisato i suoi parenti circa la situazione, sua moglie mi ha detto di salutarla tantissimo”. Mi guarda ancora con fiducia e gli innesto la flebo.

Suonano di continuo i telefoni e la TAC per portare i degenti, poi sono i parenti che vogliono informazioni circa le persone ricoverate in PS (giustamente siamo l’unico tramite), ma quando riesci a rispondere al telefono tra una cosa e l’altra non ricordi di chi ti stanno chiedendo: c’è troppa gente!

Arrivano ambulanze, ma devono aspettare prima che accettiamo il paziente, non abbiamo più barelle.

Dopo 10 minuti dalle mie “mezze bugie” torno dalla persona in astanteria al letto n.1 per valutare come procede: lo trovo morto nel casco CPap. Desolazione infinita. Ricaccio indietro le lacrime e proseguo come già detto prima a sistemarlo. Non ho altra scelta. In astanteria al letto n.3 c’è una persona (tra l’altro ci conosciamo), non sta tanto bene pure lui. Mi ha visto passare in fondo al suo letto per ben due volte in meno di un’ora con barelle ricoperte da un lenzuolo. Poveretto è silenzioso chissà cosa sta pensando.

In mattinata avremo anche un terzo decesso, per fortuna in altro letto altrimenti sì che mi sarebbe venuta una crisi isterica.

Arrivano anche persone a piedi, le dobbiamo accettare, per fortuna se la sentono di stare seduti perché altrimenti non saprei dove metterli. Sono nel corridoio di accesso per persone con sospetto Covid. Ci vedono correre di continuo, attendono i risultai degli esami fatti, il loro verdetto, praticamente positivo per tutti. Se saturano bene andranno a casa, altrimenti attenderanno lì che si liberi un letto.

Non so come arrivano le 14, la fine del turno. Cerco di dare una consegna sensata ai miei colleghi in modo che riescano a mettere mano a quel marasma.

Sulla via del ritorno mi fermo a fare la spesa. Ho pur sempre una famiglia da mandare avanti. Mentre sono indecisa sulla marca di cereali da acquistare mi sento inadeguata, fino a poco prima stavamo scegliendo chi salvare. Mi sento in colpa, non dovevo fermarmi a fare la spesa, attività frivola con quello che ho fatto in mattinata, ma per un momento ho voluto sentirmi una persona normale come tutti.

Arrivo a casa. Subito doccia con tonnellate di sapone. Disinfetto la doccia. Cerco di rilassarmi sotto il mio portichetto di casa. Fa freddo, ma non mi interessa. Cerco di azzannare una fetta di formaggella con due cracker ma non ci riesco, le lacrime iniziano a scendermi copiose senza sosta.

Arriva il mio compagno e mi chiede cosa succede, come sto. Non riesco neanche a parlare con tutte quelle lacrime.

È stato un mese di marzo faticoso. Ho mantenuto una freddezza per affrontare tutto quanto che adesso mi spaventa. Sarà stato pure un comportamento difensivo, ma mi pesa. Mi sembra di essere stata distante da quelle povere persone per cercare di risolvere l’emergenza.

La mia ancora di salvezza in quel periodo è stata la mia bambina di due anni e mezzo: Teresa.

Per lei ho dovuto mantenere una quotidianità normale e darle attenzioni. A lei non importava se la mamma tornava devastata fisicamente e moralmente, lei voleva sentirsi raccontare la favola “L’omino di pan di zenzero” punto e basta. Le telefonate ad amici e parenti dovevo interromperle, Teresa pretendeva la mia presenza. Anche il mio compagno e la mia famiglia hanno capito il mio disagio, ma solo Teresa ha scacciato via i cattivi pensieri del momento.

Guardando la sua spensierata vivacità spero un giorno di ritrovare la mia “pace dei sensi” e metabolizzare tutta la disperazione altrui che ho vissuto.

 

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