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Scritte da un studentessa

Condominio Orchidea: l’intreccio di tre storie diverse durante l’emergenza Covid

L’Istituto Aeronautico Locatelli di Bergamo, con il professor Alessandro Lanfranchi, ha chiesto ad alcuni suoi studenti di scrivere dei racconti sulla quarantena.

L’Istituto Aeronautico Locatelli di Bergamo, con il professor Alessandro Lanfranchi, ha chiesto ad alcuni suoi studenti di scrivere dei racconti sulla quarantena. Di seguito è presente una di queste storie in cui potrete entrare in tre case del condominio Orchidea.

Lisa Merlo – 5ALS

È la sera dell’8 marzo 2020. In Italia e nel Condominio Orchidea di Milano si diffonde la notizia dell’estensione a tutta la nazione del decreto “#iorestoacasa”.

Casa Manfredi, primo piano, 20:30

Luisa era al supermercato quando diedero la notizia e non aveva ancora sentito niente. Aveva notato la concitazione delle famiglie alle casse e i carrelli straripanti, ma non ci aveva dato troppo peso. “È domenica ed è tardi, siamo tutti un po’ stanchi”, aveva pensato. Al suo ritorno a casa, appena vide le bottiglie spaccate per terra, le scivolarono le borse dalle mani. Non credeva di poter rimanere più sgomenta, ma appena entrò in soggiorno e lesse i titoli del telegiornale si sentì come se le fosse caduto l’intero mondo addosso.

Tutto il mese chiusa in casa? Con Paolo? Sarebbe morta. L’avrebbe ammazzata. Tese le orecchie timidamente per sentire dov’era il marito e sentì un lieve russare dalla camera da letto. Avrebbe dovuto ripulire velocemente la cucina da tutte le bottiglie e sistemare la spesa, prima che si svegliasse.

Sapeva che le seguenti settimane sarebbero state un incubo, già prima le era difficile evitare il marito le sere quando tornava dal lavoro, ora avrebbe dovuto sopravvivergli tutto il giorno.

Aveva raccolto i vetri e doveva solo lavare il pavimento quando sentì il letto incrinarsi. Si immobilizzò come un cervo davanti ai fari di un’auto. Il pesante strisciare delle pantofole sulle mattonelle, i passi, la porta che si apriva. Luisa si sentì gelare il sangue.

Il rumore della camminata pesante e strisciante del marito si fermò, per poi riprendere in direzione del bagno.

“Devo sbrigarmi – pensò Luisa – se arriva e non ho ancora finito di pulire, altro che un mese, non resisterò neanche un giorno.” Riprese il suo lavoro in fretta e stava già iniziando a cucinare quando sentì l’acqua del rubinetto smettere di scorrere. A Paolo non piaceva mangiare in ritardo. Quando lo vide, capì subito che la notizia lo aveva mandato su tutte le furie e che la sua rabbia non era ancora del tutto sbollita.

“Che bella cena… chissà per quanto potremo mangiare ancora così, i soldi non basteranno per molto. Il capo mi ha già detto che fino al 3 aprile di lavoro non se ne parla. Non posso mica andare a casa della gente così… almeno ora avrò tempo per sistemare lo sciacquone che perde.”

“Già, ti vanno bene gli spinaci o ne vuoi di più?”

“Ti pare? Ho fame, mettine un po’ di più dai. Per non parlare poi dell’affitto da pagare…”

Fu un attimo di distrazione. Solo un’occhiata al volto del marito e gli spinaci nel cucchiaio erano finiti per terra. Nel silenzio inquietante, Luisa decise che la cosa migliore era scusarsi, pulire e non incrociare il suo sguardo.

“Ho appena finito di dire che non riusciremo ad arrivare a fine mese e tu sprechi il cibo così?”

Era meglio parlare o stare zitta? Evitare lo scontro, dicevano. Oramai l’errore era fatto, lo scontro ci sarebbe stato. Controllare il respiro. Luisa non riusciva a respirare più già da qualche secondo, che cose stupide a cui pensare. La fuga è la principale azione difensiva. Sì, ma dove? Paolo era a pochi centimetri da lei. Già non aveva dove scappare prima, ora non le era rimasta né la scelta né l’opportunità. Si chinò per raccogliere gli spinaci caduti e percepì il respiro pesante del marito più vicino. Raccolse finalmente il coraggio per sollevare lo sguardo e studiare il volto dell’uomo. Era rabbuiato, i suoi occhi le facevano paura. Aveva visto tante volte quell’espressione e sapeva che oramai non aveva via di scampo. Quando la sua mano iniziò a sollevarsi, Luisa chiuse stretti gli occhi.

Casa Ghislandi, secondo piano, 21:20

Al piano di sopra si stava scatenando il caos. Vestiti sulle sedie, sul letto, per terra. Marco doveva far veloce, il treno sarebbe partito alle undici e venti, ma quei 38 gradi di febbre proprio non aiutavano. “Nessuno mi obbligherà a stare in quarantena in questo buco – pensò – né il governo né questa febbre”. La storia del coronavirus gli sembrava tutta un’esagerazione, era solo un’influenza in fondo. “Maledetti cinesi – mormorò, mentre si sedeva sulla valigia per chiuderla – se solo se ne fossero stati a casa loro…”

Spense le luci, chiuse il gas e uscì di casa. Quando superò la porta dell’appartamento al piano di sotto, sentì delle urla, ma non aveva tempo per queste cose, doveva muoversi. E poi, ne era abituato, non c’era mai pace in quel condominio tra i Manfredi di sotto e i due demoni camuffati da bambini di sopra.

Marco non poteva dirsi molto sveglio. Quando era bambino, la mamma spesso glielo rinfacciava, sembrava che il suo passatempo preferito fosse confrontarlo con i suoi compagni di classe. Le lezioni non facevano altro che confonderlo e le lunghe ore di ripetizioni non aiutavano. Fuori dalla classe, la situazione non era migliore. Nel suo gruppo di amici, Marco era quello che capiva dopo le battute, che non si accorgeva di essere preso in giro, che si rendeva ridicolo per divertire gli altri. Era arrivato all’università per il grande impegno, non per una spiccata intelligenza, e considerava la sua sorprendente carriera universitaria come la sua vendetta verso tutti quelli che lo schernivano. In questo momento però, si sentiva particolarmente astuto. Era soddisfatto di aver comprato il biglietto del treno prima di tutti e non vedeva l’ora di essere a casa, la mamma lo avrebbe atteso con la pasta già pronta. “Furboni – pensava tra sé e sé – mentre voi aspettate di prendervi il coronavirus, io sarò già al mare. Se il tempo tiene magari riesco anche a fare il bagno…”

Forse, con un po’ più di perspicacia, si sarebbe accorto che mentre gli altri “aspettavano” di ammalarsi, lui si sarebbe trovato in una nota villeggiatura chiamata terapia intensiva.

Osservò con stupore che la Stazione Centrale era piena. Allora non era stato l’unico a sentire la notizia! Si affrettò insieme agli altri verso il binario, dove il treno lo stava già aspettando.

Mentre prendeva il suo posto, pensava alle settimane che avrebbe trascorso a casa, lontano dall’università. Appena la febbre fosse scesa, avrebbe organizzato un aperitivo con i pochi amici d’infanzia. Dopotutto, che paura doveva avere? Nella sua regione non erano stati ancora registrati casi e anche se ci fossero stati, era solo “una banale influenza, come quella che ho io ora” ricordò a se stesso mentre tossiva.

Casa Pesenti, terzo piano, 21:58

Nell’attico la situazione non era migliore che al piano inferiore. I bambini strillavano: la loro gioia di non dover andare a scuola si era presto mutata in rabbia appena avevano saputo che la settimana di campeggio tanto attesa era sfumata. Clara era seduta sul divano, sul punto di un’emicrania, a massaggiarsi le tempie.

Per i coniugi Pesenti l’annuncio della quarantena forzata era stato un colpo al cuore. La babysitter era stata la prima a chiamare, a far sapere che non sarebbe venuta in nessun caso, non voleva mettersi a rischio. La domestica aveva chiamato poco dopo: “Ho anch’io una famiglia da mantenere”, aveva detto.

I Pesenti da un giorno all’altro si erano ritrovati a dover tornare a fare i genitori a tempo pieno, e l’idea non piaceva. E come se le urla dei bambini non bastassero, anche il marito aveva iniziato a lamentarsi.

“Ecco, ci mancava solo questa, adesso la conferenza verrà spostata chissà a quando! O peggio, dovremo farla in videochiamata. Ma che casino, non si capirà niente. Ora mi toccherà pure lavorare in questo bordello, tra i bambini e i Manfredi! Che casino, che casino…”

“Ma i Manfredi, chi?”

“Ma sì, i Manfredi, quei casinari del primo piano! Non li senti che già urlano? E sono a casa da meno di due ore!”

“Ah i Manfredi… staranno tutto il giorno a casa ora. Poverini, hanno una casa minuscola, finisce che impazziscono. Smettila di correre attorno al tavolino di cristallo, Giada! Luca, dille qualcosa anche tu.”

“Finitela, voi due. I Manfredi poverini? Ma poverini cosa? Adesso non dovranno più neanche lavorare quei maledetti, e io invece tutto il giorno davanti al computer…”

Il signor Pesenti sbuffò e si lasciò cadere sul divano di fianco alla moglie. “Quindi per i bambini? – tentò di iniziare il discorso – Cosa facciamo?”

“Cosa vuol dire per i bambini? Dobbiamo sorbirceli, i bambini!”

Adesso era il turno del marito di massaggiarsi le tempie.

“Li porteremo fuori a fare un giro per farli sfogare.”

“Non si p…”.

“Li porterò io al parco – la interruppe Luca – Chi vuoi che mi dica qualcosa? Provassero loro ad avere due demoni in casa tutto il giorno.”

Giada nel frattempo si era seduta sul tappeto, mentre suo fratello le tirava i capelli. Dopo avergli assestato due manate con forza (a cui il fratello rispose con uno strillo che peggiorò notevolmente il mal di testa della madre), prese a guardare con gli occhi spalancati i genitori. “Ma perché devo stare a casa? Io voglio andare in campeggio, me l’avevate promesso! Uffa. E perché Chiara non viene?”

“La babysitter non può venire, andate sul terrazzo a giocare agli indiani e lasciami parlare con la mamma di cose da grandi”

Giada si rabbuiò, “La babysitter si chiama Chiara” brontolava mente offriva la mano al fratello. Corsero insieme oltre le ampie porte finestra, dove prontamente gli strilli ripresero.

Clara prese un respiro profondo. “Certo che questo virus è proprio una fregata, ci tenevo anch’io a quel viaggio in campeggio ad essere sincera.”

“Non preoccuparti tesoro, appena finirà tutto questo casino ci andremo.”

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