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Gli psicologi in carcere

Bergamo, tra i detenuti rabbia, paura, solitudine: difficile l’equilibrio in cella

"Il dentro chiama il fuori, gli affetti, le istituzioni, la gente, il riscatto e il perdono": Marco Pesenti e Daniele Drago, psicologi della UOC Psicologia del Papa Giovanni XXIII, di servizio alla Casa Circondariale di Bergamo

“Il carcere vive una quotidianità complessa che con l’emergenza Covid-19 si è ulteriormente appesantita per la sospensione di tutte le attività volte a sostenere gli aspetti di progettualità su cui si ancorano prevalentemente le vite dei ristretti”. È un equilibrio difficile da preservare quello raccontato da Marco Pesenti e Daniele Drago, psicologi della UOC Psicologia del Papa Giovanni XXIII, di servizio alla Casa Circondariale di Bergamo. Se l’8 marzo ha significato per tutti l’interruzione della normale esistenza, per i detenuti ha comportato ulteriori restrizioni, la fine dei colloqui con i propri famigliari e la sospensione di ogni attività di recupero dentro e fuori il carcere. In questa bolla senza ancora data di fine il ruolo di psicologi e operatori della casa circondariale è quanto mai fondamentale: la distinzione tra dentro e fuori ora non esiste, per nessuno. C’è solo un enorme dentro che ci riguarda tutti, fatto di muri e di paure che cerca incessantemente il fuori e la speranza.

Come state vivendo questo momento voi operatori?

Siamo esseri umani e, come tutti, specie all’inizio, siamo stati preoccupati del possibile contagio e di essere vettori per i nostri cari. Oggi il costante utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e all’attenzione alle indicazioni che tutti siamo ormai abituati a rispettare ci aiutano ad essere più sereni rispetto a questo. L’attenzione alla cura di sé, il confronto, lo scambio tra operatori ci aiuta. La solidarietà tra colleghi e tra curanti e pazienti in questo momento è più che mai il cibo per stare in piedi, mitigare l’angoscia, sollecitare la speranza.

Come è cambiato il vostro lavoro in queste settimane?

Come noto, sono diminuiti gli arresti, per cui meno visite di nuovi giunti, che ci permettono di rispondere più celermente alle numerose richieste di sostegno psicologico.

Che clima si respira in carcere?

In carcere si fanno sempre i conti con la rabbia e con la paura. In queste settimane, dopo le prime fasi, si respira un clima di attesa. Ovviamente tutti auspichiamo che sia un’attesa di cui si cominci ad intravvedere la fine perché non è facile per nessuno restare sospesi. Crediamo sia molto importante che si parli anche della condizione delle persone detenute e dei loro vissuti soprattutto in questa fase. Questa vicenda riguarda la società intera e quello che credo abbiamo capito tutti è che per vincere questa battaglia bisogna essere uniti.

Come stanno i detenuti?

Dopo un primo momento di agitazione a causa delle proteste per alcune restrizioni – come la sospensione delle visite delle famiglie – tutte le persone detenute hanno dimostrato di aver compreso la situazione e il comportamento è stato diffusamente attento alle regole e responsabile. Questo però non ha impedito il radicarsi in molti del senso di angoscia, come è accaduto fuori, ma in una condizione di reclusione molto più radicale e passiva di quella che stiamo sperimentando tutti. L’angoscia segue in modo naturale la privazione della libertà, ma in questo momento di blocco nazionale, la preoccupazione per i propri familiari, i lutti, il vedersi spostare le udienze in tribunale a data da destinarsi e la percezione che anche gli operatori possano essere più distanti, fa dell’angoscia una nota di fondo, un acufene che rischia di non far più sentire altri suoni. I progetti, ad esempio, sul proprio futuro, l’incontro con i familiari, che potrebbe non esserci più, il senso delle attività svolte in carcere. Per questa ragione si fa ancora più importante il senso del supporto umano, da parte della Direzione, della Polizia Penitenziaria e degli operatori sanitari: medici, infermieri, e soprattutto psicologi, in contrasto alla frustrazione e alla ricerca di un senso del tempo.

Quanti di loro hanno dovuto interrompere le attività di riabilitazione dentro e fuori dal carcere?

Sono ferme quasi tutte le attività, è fatta salva l’ora d’aria. È chiusa la scuola, il teatro, i progetti di lavoro esterno, i volontari non possono accedere all’istituto. Di questi ultimi, in particolare, è da sottolineare l’importantissimo apporto nel tenere i contatti con la famiglia, nel risolvere piccoli e grandi problemi burocratici, nel tenere i contatti con gli avvocati.

Quali sono le cose di cui avete maggiormente bisogno?

Noi come operatori abbiamo bisogno di sentirci squadra e su questo lavoriamo da tanto e su più livelli. Abbiamo bisogno di sentire che non siamo a un confine lontano e inaccessibile, che la ASST continui a farci sentire pensati e vissuti come parte di un sistema più ampio che dedica le sue energie al tema della salute. Quando si vive, si lavora in ambienti “ai margini”, densi di sofferenza, quando si vive la quotidianità di “istituzioni totali”, sentire che c’è un legame con una struttura al di fuori, a cui afferire per uno scambio, un confronto, diventa necessario. Abbiamo bisogno, dentro il carcere, di sentire che si è colleghi, tra sanitari e operatori penitenziari, che si lavora insieme per la cura e per la sicurezza di tutti, dentro e fuori e che si è parte della stessa comunità. I detenuti, in questo momento più di altri, hanno bisogno di sentirsi parte di una comunità, ma soprattutto hanno bisogno di sentire che i loro diritti sono riconosciuti e che sono pensati anche loro come occasione di ripartenza. E non sentirsi un “dentro” lasciato alla deriva dal “fuori”.

Fuori la pandemia, dentro la preoccupazione. Quale è ora il rapporto tra dentro e fuori?

Rimane un rapporto sbilanciato. Il dentro chiama il fuori, gli affetti, le istituzioni, la gente, il riscatto e il perdono. Il dentro è la spacconeria che fa da antidepressivo, è la nostalgia da nascondere sotto le coperte, la ricerca di vivere autenticamente, di essere riconosciuti per quel che si è nel profondo di sé stessi. Il fuori non chiama il dentro se non ne è coinvolto direttamente, lo espelle, lo accantona. In questo momento il dentro ha paura quanto il fuori, ma paradossalmente se ne sente in qualche modo protetto. Il dentro ha voglia di uscire solo per rincasare, perché mancano, sempre e oggi di più, i legami affettivi da abitare.

Voi operatori vi sentite al sicuro?

Noi lavoriamo in un contesto che ha come obiettivo la cura, e la cura reciproca ci permette di avere energia da investire costantemente e di continuare a progettare anche in questa fase. Che ci si possa solidalmente sentire tutti soggetti, persone. Anche così teniamo sotto controllo il virus così come i vissuti disturbanti la fatica. Allora ci si può sentire al sicuro.

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