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L'intervista

Coronavirus, il dottor Saffioti: “Gravi difficoltà nella comunità di riabilitazione psichiatrica”

Il dottor Carlo Saffioti, psichiatra, direttore di una comunità di riabilitazione psichiatrica della Fondazione Emilia Bosis a Verdello, descrive la difficile situazione che la struttura sta vivendo per l'emergenza Covid-19

I percorsi di riabilitazione sono bloccati, il personale è falcidiato e le mascherine scarseggiano“. Così il dottor Carlo Saffioti, psichiatra, attualmente direttore di una comunità di riabilitazione psichiatrica della Fondazione Emilia Bosis a Verdello, descrive la difficile situazione che la struttura sta vivendo per l’emergenza Coronavirus.

Il periodo è complicato per tutti, ma per centri come questo le problematiche sono ancora più forti. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Che problemi state riscontrando?

La nostra comunità accoglie pazienti che ci vengono inviati dai servizi psichiatrici e che provengono direttamente dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) e dai Centri Psico Sociali (CPS). Tra gli ospiti prevalentemente ci sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni oltre ad alcune persone più grandi: per lo più, quindi, sono giovani che iniziano percorsi di riabilitazione psichiatrica. Da una parte cercano di affrontare e risolvere le loro criticità e problematiche interne che hanno portato a gravi difficoltà nel rapporto con la realtà e dall’altra ricominciano ad avvicinarsi al mondo, che significa dedicarsi a lavoro, studio, amicizie e sport, riprendere i contatti con la famiglia ecc. Con l’emergenza Coronavirus, però, questi progetti sono bloccati.

Ci spieghi

I pazienti che avevano il lavoro non possono svolgerlo, una nostra ospite che lavorava in un ristorante è stata licenziata perchè ha chiuso e due ragazze che erano riuscite a riprendere l’università ora sono bloccate così come altri giovani che stavano frequentando corsi professionali. Sono ferme anche le attività riabilitative di tipo sportivo come il corso di canoa, ma anche i laboratori teatrali e i progetti di supervisione. Le iniziative che vengono svolte all’interno della struttura sono limitate con l’aggravante che il personale in questo momento è falcidiato: sono rimasti 2 dei 5 educatori e terapisti della riabilitazione (e temo che uno di loro da oggi debba stare a casa) e le psicologhe si sono ammalate. Anche il personale infermieristico e gli operatori socio sanitari sono a ranghi ridotti e stanno facendo turni più lunghi per sopperire agli assenti. E poi c’è un altro aspetto.

Quale?

Sono bloccati anche i permessi a casa – quasi tutti il sabato e la domenica rientravano nelle proprie famiglie o nelle proprie abitazioni – e possono essere effettuate solo visite da parte dei familiari più stretti in modo molto rapido e rispettando le regole per evitare i rischi di contagio. Inoltre servono mascherine per consentire al personale di lavorare in sicurezza… Insomma, la situazione è difficile, molto faticosa.

E come vi state organizzando?

Fino ad oggi ci siamo arrabattati con qualche decina di mascherine e finalmente adesso dovrebbe arrivarne un numero che per circa 15 giorni ci permetterà di farle indossare a tutto il personale e ai pazienti che vengono dall’esterno, perchè abbiamo anche un centro diurno, che teniamo aperto. Anche qui abbiamo difficoltà perchè il servizio di trasporto non è più funzionante: il volontario che svolgeva questo servizio si è ammalato e in molti casi andiamo noi stessi a prenderli. Per rispettare le regole anti-contagio manteniamo la distanza nello svolgimento delle attività e abbiamo cambiato tutto l’assetto della sala da pranzo.

Avere a disposizione le mascherine è fondamentale

La loro mancanza ha fatto sì che tanti operatori si infettassero. Per esempio, in un’altra comunità della nostra fondazione, a Bergamo in via Mentana, che accoglie ospiti più anziani, proprio ieri si è rilevato un caso positivo al tampone. Col senno del poi, dotare sin da subito di mascherine il personale ospedaliero e del pronto soccorso, delle case di riposo e delle comunità ma anche i medici di famiglia sarebbe stata una prevenzione importante. So che le case di riposo sono in grave difficoltà sia per l’infezione del personale sia per gli ospiti che, essendo anziani, sono maggiormente a rischio e possono avere conseguenze drammatiche, ma anche le comunità che accolgono persone di età avanzata il problema è pesante.

Come stanno vivendo questa situazione i pazienti?

Nella quasi totalità stanno rispondendo con la consapevolezza che c’è questo problema grosso e hanno senso di responsabilità. Hanno capito la situazione, anche quelli con più difficoltà nel rapporto con la realtà: la stanno accettando e provano ad adattarsi. Noi cerchiamo di rispondere al blocco di molti progetti con una maggiore presenza e intensificando la relazione, anche singolarmente, pur mantenendo la distanza.

Hanno paura?

Aleggia in tutti, anche nei nostri ospiti, però ad oggi non hanno manifestato la riacutizzazione di alcune sintomatologie di tipo paranoideo o forme di chiusura. Abbiamo spiegato cosa sta succedendo e hanno compreso che ci troviamo tutti sulla stessa barca: non sono solo loro ad avere le restrizioni.

Potrebbe dare qualche consiglio su come affrontare questa situazione?

Innanzitutto, non perdere di vista la realtà: tanti contraggono il virus ma la stragrande maggioranza guarisce: solo una piccola percentuale ha bisogno di ricoveri e terapie intensive. Essendo ampio il numero dei contagiati, però, diventa importante ed è per questo che il sistema sanitario è in difficoltà. Un altro consiglio è non continuare a inseguire i bollettini di guerra che vengono diffusi più volte al giorno perchè lo trovo ansiogeno. È utile, poi, distogliere ogni tanto l’attenzione dal problema, per esempio dedicandosi a un film o a una lettura.

Telefoni, cellulari e videochiamate possono essere utili?

Si, ci permettono di rimanere in contatto con gli altri. Ed è meglio non usarli per scaricare rabbia, rancori o proteste ma per scambiarsi informazioni e gettare semi positivi. In un momento come questo, più in generale, è fondamentale avere senso di responsabilità: ciascuno deve essere consapevole che quello che si sta facendo adesso è essenziale per se stessi, per i propri cari e per le persone vicine. Penso che questa consapevolezza dia l’energia e permetta di adattarci alla situazione.

Per concludere, è possibile sentirsi uniti a distanza?

L’isolamento rischia di essere l’aspetto più pesante. A volte si è isolati e altre si è costretti a convivenze difficili o alle quali non si era pronti, ci sono relazioni familiari complicate che reggevano perchè i momenti di coabitazione erano ridotti al minimo.

E come si può fare in questi casi?

Bisogna essere consapevoli della situazione e dirsi che si ha difficoltà a stare insieme troppe ore nello stesso luogo. Esplicitarlo può permettere di trovare quegli accorgimenti per avere spazi e tempi propri: in alcuni casi può essere un’opportunità per approfondire il rapporto partendo dalla consapevolezza di questo disagio e parlarne potrebbe diventare l’occasione per chiarirsi.

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