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La testimonianza

“Mio padre è morto in ospedale senza nemmeno un nostro saluto: un incubo”

Roberta Zaninoni, 32enne di Colzate, racconta di come ha perso suo padre Giuseppe, deceduto a 72 anni in ospedale, rimasto solo con i medici per giorni e senza poter ricevere nemmeno un ultimo saluto dai suoi cari

Una testimonianza forte, purtroppo simile a molte altre in questo periodo di emergenza da Coronavirus. Roberta Zaninoni, 32enne di Colzate, racconta di come ha perso suo padre Giuseppe, deceduto a 72 anni in ospedale, rimasto solo con i medici per giorni e senza poter ricevere nemmeno un ultimo saluto dai suoi cari:

“Voglio condividere con voi quello che stanno provando tantissime persone come me in questa pandemia, che sta portando via troppe vite ingiustamente.

Non potete capire cosa stiamo provando noi famigliari per una persona morta di Coronavirus. E cosa provano i medici, le infermiere che ogni giorno, insieme a noi, vedono questo strazio con i loro occhi.

Voglio raccontare questa sofferenza che io ho provato stanotte, ma che da settimane migliaia di famiglie stanno vivendo. Ed è un incubo. Surreale. Delirante.

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Il malato inizia a stare male a casa e si chiama l’ambulanza. Sintomi da Coronavirus. Diretti in ospedale per controlli e tampone.

Una volta ricoverato, non possiamo più vederlo e sentirlo. Si chiamano solo i dottori che telefonicamente ti aggiornano sulla situazione, peggioramenti o miglioramenti.

Il virus è veloce, arriva ai polmoni rapidamente e l’unica soluzione è il casco respiratorio. I polmoni però dovevo reagire. Il paziente deve essere forte.

Quel paziente ha contatti solo con il personale medico, tutto coperto per non infettarsi.

Il paziente non vede e sente da giorni i suoi famigliari, non sente le loro voci, non può toccare pelle a pelle la mano di nessuno. Nessun abbraccio. Nessun contatto umano o comunque il meno possibile. Anche i medici restano impotenti vicino a questa cosa. Ma non ci posso fare niente. Il virus è forte. Non possono mettere a rischio la vita dei famigliari. Il virus è veloce. Invisibile. Letale.

Il malato a questo punto è in una situazione difficile: non riesce a respirare, si sente debole e vede spegnersi il suo vicino di stanza. Lo portano via in barella. E’ morto. L’aria della camera si fa pesante. L’ansia inizia a salire, i pensieri diventano cupi, la voglia di vivere inizia a essere mangiata dalla paura di non farcela. Toccherà a me? Farò la stessa fine? E se la mente è debole, il corpo risponde di conseguenza.

Il respiro non c’è più, la confusione e poi il nulla. Il battito si ferma. Lì. In un letto di ospedale con a fianco medici e infermieri, ma senza la tua famiglia. Senza tua figlia o tuo figlio che ti fanno coraggio e ti dicono: ‘forza papà, sono qui, supereremo anche questa’.

Quando il malato muore ti avvisano con una chiamata, ma il cervello non ci crede. La mente è strettamente legata alla vista e vuole vedere per credere. Visto che non può vedere, inizia a fare mille domande: “Dottore è sicuro? Tra tutti i malati che ha è proprio mio padre? Giuseppe Zaninoni ? Può veder bene? Controlli la cartella. Mi dica. Mio papà ne ha passate tante, è forte, io lo so”.

roberta papà

Niente da fare. E’ proprio tuo padre. E’ il tuo caro. Il virus ha vinto. Ma tu vuoi sapere. “Come e’ andata? Cosa ha fatto gli ultimi momenti ? Ha chiesto di noi? Cosa diceva? Quali sono state le ultime parole?” “Voglio andare a casa”. E così capisci che ormai non poteva più stare lì, che la sua mente e il suo corpo si sono spenti con il pensiero di casa, di famiglia,di amore. Di voglia di tornare al nido. Quel nido che ti fa sentire protetto, amato, rassicurato. Quell’abbraccio che noi famigliari non abbiamo potuto dagli. Perché quel virus maledetto deve fermarsi. Non può infettare ancora. Non può vincere ancora.

Il virus e’ forte. Papà, da sola, debole. Avrà cercato conforto negli occhi di quel povero dottore che ogni giorno vede spegnersi così tante persone e che deve dare la notizia ai parenti telefonicamente. Dio solo sa le urla di dolore che avrà sentito in quel cellulare.

Il cadavere e’ lì. Bisogna portarlo via. Fare posto ad un altro che forse si salverà. Forse.

Il cadavere viene messo in un sacco nero e portato con gli altri. La lista di attesa per la cremazione e’ di 10 giorni. “Troppi morti. Non c è posto. Solo ieri ho dovuto chiudere 60 bare” ci dice il signore delle pompe funebri. Il funerale non si può fare, non si può rischiare che le persone si incontrino e si infettino. Il
Virus non deve vincere. Dobbiamo soffrire in silenzio, a casa, senza abbracciare un fratello, una sorella, un’ amica. Dobbiamo farci forza e mandare il messaggio ancora più forte: “Stiamo a casa. Blocchiamo il virus. Insieme. Vinciamo noi la battaglia che ogni giorno centinaia di persone perdono. Facciamo in modo che la loro morte non sia invana”.

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