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Un libro, tanti suoni

Gino Frigeni e la storia della musica da Bergamo al mondo

A vent’anni dalla sua pubblicazione, è stato un onore ricevere in dono "Bergamo di Note" dall’ideatore e creatore Gino Frigeni, conosciuto come chitarrista e fondatore, insieme a suo fratello Bruno, de I Monelli, complesso beat formato negli anni Sessanta, che ha costituito uno dei pilastri della musica leggera orobica.

Oggi difficilmente si riuscirebbe a provare quel brivido emotivo che qualche decennio fa sarebbe stato scontato percepire, entrando nei locali in cui si suonava il blues, il jazz, il folk, e così via.

La musica sembra ormai scomparire quando ad occupare la scena sono quei ragazzi, anche miei coetanei, che, all’interno di un disagio causato da un sistema sociale ipertecnologico di facile accesso sono spinti a coltivare quella bramosia di successo, perdendo il vero senso di “fare musica”. Tutto muore però quando la musica si trasforma in una banale ricerca del successo.

Si enfatizza il mito dell’immagine, tanto che si è disposti a tutto pur di apparire, annullando quel sentimento di ricerca, studio ed espressione artistica, diventando “una specie di cinghiale laureato in matematica pura”, come diceva il buon Fabrizio De André.

A fronte di questa riflessione utile a smuovere un dibattito culturale, non posso non raccontare del regalo ricevuto qualche mese fa e mi riferisco a una vera e propria enciclopedia musicale in commercio: trattasi di una raccolta di schede e recensioni musicali inerenti a musicisti e band del secolo scorso, che hanno caratterizzato il panorama musicale bergamasco, dal titolo Bergamo di note.

A novembre, a vent’anni dalla sua pubblicazione, è stato un onore ricevere questo dono dall’ideatore e creatore di questo progetto, mi riferisco a Gino Frigeni, conosciuto come chitarrista e fondatore, insieme a suo fratello Bruno, de I Monelli, complesso beat formato negli anni Sessanta, che ha costituito uno dei pilastri della musica leggera orobica.

E a distanza di poche settimane dalla conclusione del Festival in cui la canzone pare faccia da padrona, almeno in minima parte, è doveroso narrare il viaggio che ho intrapreso pagina dopo pagina, interagendo anche con l’indiscusso protagonista Gino Frigeni.

Partendo dal principio che chi fa e vive di musica, ne diventa artigiano come quel ragazzo che negli anni della guerra usufruiva dell’ingegno in un periodo in cui di soldi per l’acquisto degli strumenti del mestiere non se ne sentiva parlare, visto che era più importante comprare il pane per esigenze di sopravvivenza: un tagliavetro prestato dall’amico falegname, una cassetta vuota del fruttivendolo ancora vestita del profumo di pesca, legando i listelli di legno con due pezzi di spago, il tutto per creare le Campanine, uno xilofono post-litteram.

È così che Gino Brembilla, per far fronte alle ingenti difficoltà dell’epoca, sfruttava l’indispensabile e, con il proprio estro creativo, faceva emergere le sue qualità artigianali.

Per essere considerati musicisti a tutti gli effetti, bisogna in qualche modo fare e disfare non solo un testo di una canzone o una composizione melodica, ma anche il proprio strumento, conoscerlo ed esplorarlo in ogni sua componente meccanica, essere quindi artigiani della musica. Insieme al requisito dell’artigianalità si aggiunge quello del sacrificio che prevede gioie e amarezze, soddisfazioni e meschinità della professione.

Il servizio militare di leva nel Dopoguerra diventava uno dei limiti per la gran parte degli artisti di casa nostra, tanto da infrangere sogni e carriere, o peggio, ancora conduceva inesorabilmente allo scioglimento di numerose band, persino in un contesto di piena ascesa, come nel caso de I Chiodi: uno dei membri del gruppo veniva chiamato dal Ministero della Difesa, quindi si doveva provvedere a sostituzioni temporanee e “per esorcizzare quei momenti dolorosi ricorrevano a riti voodoo e interminabili mangiate di polenta taragna innaffiata da generoso vino rosso”.

Nonostante tutto si andava avanti, i complessi terminavano la loro attività e si rigeneravano, legati da un atteggiamento comune, ovvero quello di essere pazienti e cauti.

Bergamo di note è un lungo cammino che attraversa i vari periodi musicali che hanno caratterizzato il secolo scorso, tra racconti tristi e aneddoti simpatici, ma il tutto accomunato dallo spirito autentico ed educativo, tanto che si è aperta una dimensione della tradizione culturale locale a me sconosciuta. Dagli anni Dieci agli anni Novanta del Novecento, dal tempo in cui nascevano orchestre e si suonava la musica jazz nelle balere di provincia fino ai gruppi della musica beat e rock degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, da una Bergamo che incarnava la New Orleans d’Italia a una Bergamo che sembrava una vera e propria filiale di Londra.

Se parliamo di orchestre non possiamo non ricordare la storica Estudiantina, una grande orchestra a plettro, ambiente in cui risuonavano le note di mandolini e chitarre, un laboratorio musicale nato nel lontanissimo 1907, che vedeva alternarsi grandi direttori a partire dal fondatore Eugenio Giudici fino al maestro Amleto Mazzoleni, che con essa suonava dal vivo le colonne sonore dei film muti.

Senza dimenticare il maestro Angelo Mazzola che rese Bergamo internazionale con la sua composizione sinfonica Il Pianto di Glauco, dopo che un medico giapponese di nome Isao Takabashi era tornato in Giappone da un viaggio in Italia con una decina di spartiti della musica nostrana tra cui quello appena citato, suscitando inoltre l’ammirazione di Mitsutama Okamura, un giovane musicista giapponese che agli inizi degli anni Settanta partì dal Sol Levante per raggiungere la nostra città solo per incontrare lo stesso maestro Mazzola.

All’ Estudiantina si associa inoltre un altro nome importante, quello di Giuseppe Frigeni, il papà di Gino, quel bambino che “quando sentiva passare la banda e sognava di essere uno di loro”.

Uno dei problemi della prima metà del secolo scorso era la fame e Giuseppe di soldi non ne aveva. Iniziò a lavorare negli altiforni della Dalmine, dove incontrò un caporeparto, suonatore di tromba, con cui tra un turno e l’altro organizzavano una scuola di musica “autogestita”: quest’ultimo impartiva lezioni di musica ai colleghi, scrivendo con il gesso le note sui tubi.

Altro pilastro fu la Mandolinistica di Leffe, la più antica orchestra della terra bergamasca e probabilmente del Paese intero, che vide la sua nascita nei primi anni 800’: suonatori di mandolini di estrazione contadina, si unirono in una compagnia per intrattenere gli ospiti delle feste fino a diventare quell’orchestra che nella seconda metà del XX secolo, eseguendo Brahms o Bohlmann, canzoni napoletane o russe, andava in tournèe in giro per l’Italia e per l’Europa.

L’internazionalità di Bergamo veniva determinata anche dal folklore di alcune compagnie musicali, come la Garibaldina, dove musicisti vestiti di rosso fiammante suonavano il flauto di Pan, ispirandosi ai nostri conterranei che furono impegnati nella celebre spedizione dei Mille, o come L’Arlecchino, dove gli uomini indossavano il tradizionale frack di panno verde e marrone, esibendosi con un enorme ombrello tipico dei pastori bergamaschi, mentre le donne indossavano larghe camicie bianche con gonne a quadretti e il classico “panet” in testa.

Non solo musica, la tradizione ci tramanda anche il costume dei nostri antenati, una vera e propria commistione di storia e note, che è continuata nella seconda metà del Novecento. Mentre a Sanremo nel 1968 si esibiva Louis Armstrong, molti ragazzi orobici si facevano travolgere dalla musica americana e tra questi emergeva uno dei più grandi jazzisti nostrani, Gianluigi Trovesi.

Poi l’epoca del Davoli, ribattezzato lo “scudetto dei complessi”, in cui nel 1966 trionfarono i Mat 65 e l’anno successivo i Monaci, un concorso che lanciò persino i famosi New Trolls e come non ricordare la band bergamasca che portava il nome de I Woom.

In questo ampio panorama musicale c’era chi continuava o chi si fermava, ma la passione non moriva mai.

C’erano coloro che spiccavano il volo come Ivan Cattaneo, nonostante il suo inizio di carriera etichettata per via di alcune sue canzoni un pò ambigue, o come un certo Camillo Facchinetti, conosciuto ai più come Roby Facchinetti, in quanto noto membro dei Pooh.

Quest’ultimo, prima di intraprendere il percorso con la celebre band che lo porterà all’apice del successo, calcando i palchi di tutta Italia ed Europa e scrivendo un pezzo di storia della musica italiana; condivideva gli inizi della sua carriera con i Monelli: erano i tempi in cui i Beatles sbarcavano in Italia e compivano la rivoluzione con Revolver, mentre il quartetto canoro intratteneva i bagnanti della riviera adriatica in un’atmosfera felliniana.

Gino Frigeni non solo ha imposto un tassello della storia della musica leggera del nostro territorio e non, portando i “Monelli” in giro per l’Italia, ma è riuscito con la collaborazione di Franco Dassisti, biografo dei Pooh, e degli editori Emilio e Luigi Agazzi di Grafica & Arte; ad amalgamare infinite e affascinanti narrazioni in unico manuale, o per evitare tale eufemismo lo definirei a priori la nostra “Bibbia”, perché ci svela un immenso bagaglio culturale che appartiene alle nostre origini.

Vicissitudini che si alternano, compresa quella di Gino Frigeni che durante il periodo della naja faceva fruttare l’arte di arrangiarsi, inventandosi meccanico per gli ufficiali per guadagnarsi qualche soldo e acquistare una chitarra e da lì a poco avrebbe formato un trio acustico.

Nel 1958 fondava i Gimut, tre anni dopo nascevano i Monelli, con Bruno Frigeni (basso e voce), Maurizio Battaglia alla batteria e alle tastiere Roby Facchinetti. Successivamente ognuno prese la propria strada e Gino Frigeni con tenacia mantenne vivo questa formazione con nuovi componenti, riuscendo a portarli persino in televisione da Mike Bongiorno, finendo nelle enciclopedie del rock italiano. Suonarono con Van Wood e arrivarono ad incidere tre 45 giri con la Fox Records. Poi si sciolsero e si cambiò nuovamente: Gino Frigeni con la sua esperienza e assieme al suo nuovo gruppo i 20° secolo General Music, si ritrovò ad affiancare i re del rock come i Genesis, quelli con i leggendari Phil Collins e Peter Gabriel.

E arrivò il giorno in cui decise di raccogliere tutte le sue vicende musicali e quelle dei suoi colleghi per realizzare Bergamo di note, impiegandoci lunghi e interminabili otto anni tra ricerche complesse di documenti e musicisti, tenendo conto che negli anni Novanta Internet non era ancora accessibile alla massa.

Lo scopo era quello di lasciare un segno importante della nostra tradizione musicale da tramandare, oltre ai suoi figli Laura e Fabrizio (attuali musicisti), di generazione in generazione, insegnando il vero significato di “fare musica” che arriva prima di ogni successo.

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