• Abbonati
Geopolitica e mercati

Rapporto Einaudi: l’incertezza domina nel mondo, in Europa e in Italia

Presentato giovedì a Bergamo il XXIV Rapporto sull'economia globale e l'Italia, realizzato dal 1996 con cadenza annuale dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi in collaborazione con UBI Banca

Presentato giovedì a Bergamo il XXIV Rapporto sull’economia globale e l’Italia, realizzato dal 1996 con cadenza annuale dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi in collaborazione con UBI Banca. Il Rapporto analizza l’evoluzione dei mercati mondiali e della situazione geopolitica dal punto di vista degli sviluppi congiunturali, dei settori, delle imprese, delle regole, e la posizione dell’Italia nell’economia globale.

Il Rapporto si articola in quattro capitoli. Il primo riguarda l’andamento dell’economia globale e delle sue maggiori componenti; il secondo capitolo tratta tematiche varie relative al lavoro, al capitale, alle multinazionali, alle innovazioni. All’evoluzione politico-strategica è riservato il terzo capitolo e al quarto si arriva a parlare dell’Italia, in maniera efficacemente collegata alla realtà mondiale nella quale il Paese è immerso.

È realizzato da un team di studiosi e ricercatori, con la collaborazione e il coordinamento di Mario Deaglio, professore emerito di economia internazionale all’Università di Torino.

“In uno scenario come quello descritto dal Rapporto presentato questa sera, caratterizzato da molti elementi di incertezza, diventano sempre più importanti dialogo e cooperazione tra istituzioni e imprese e riforme strutturali che efficientino il sistema economico affinché questo torni ad essere attrattivo per gli investimenti – afferma Luca Gotti, Responsabile della Macro Area Territoriale Bergamo e Lombardia Ovest di UBI Banca – L’atteggiamento di lecita prudenza che rallenta gli investimenti non dovrebbe impedire alle aziende del nostro territorio di cogliere le opportunità che internazionalizzazione e innovazione garantiscono sul fronte della crescita e dello sviluppo anche sostenibile.”

Clima ed economia: c’è aria di tempesta

Il disordine climatico deve essere considerato come una delle condizioni più importanti per spiegare il disordine economico, esploso con la cosiddetta Grande Recessione iniziata nel 2008, delle cui cause e conseguenze non abbiamo ancora analisi veramente esaurienti. Ci muoviamo in una sorta di crepuscolo, e tutto ciò che sappiamo è che la crescita economica ha subito un rallentamento strutturale del quale non riusciamo a vedere chiaramente la fine. Il rallentamento interessa tutto il pianeta, o, se si preferisce, tutta l’economia globale, pur diventando l’aggettivo “globale” sempre più difficile da usare in un mondo in cui aumentano le restrizioni agli scambi internazionali, un flusso di transazioni che di questa globalizzazione ha costituito la spina dorsale.

Le conclusioni ricavabili si possono, infatti, così riassumere: la crescita globale nel 2019-2021 risulterà quasi nulla. Il rallentamento europeo risulta particolarmente accentuato, con l’Italia
che a fatica nel 2020 raggiungerebbe lo 0,5 per cento di espansione nel 2021 e la Germania che, nello stesso anno, non arriverebbe all’1 per cento.

L’India non è in grado di sostituire la Cina quale “motore” principale dell’espansione economica dell’intero pianeta. L’economia indiana interagisce con l’economia globale assai meno di quella cinese. Lo stimolo addizionale non riuscirà a compensare la riduzione di stimolo, in termini di diminuzione delle importazioni cinesi originariamente previste, risultante dalla minore crescita cinese.

La Cina sta reagendo riorientando la produzione verso la domanda interna. E sono ormai diversi anni che la tendenza all’aumento dell’incidenza del commercio estero mondiale sul prodotto lordo mondiale si è prima affievolita e poi leggermente invertita.

In quest’ottica si colloca un’altra “perturbazione”, la digitalizzazione, inizialmente accolta con entusiasmo, ma che ora incomincia a far paura e ci indirizza inesorabilmente verso condizioni verso le quali non siamo sicuri di voler andare.

Questi cambiamenti a livello sociale coinvolgono tutti: la crisi delle religioni, Il risentimento degli esclusi, gli episodi di microcattiveria, i conflitti tra insegnanti e famiglie degli studenti, l’indisciplina del traffico, e via di seguito.

Stati Uniti: il volo dell’aliante

Le condizioni dell’economia reale degli USA non convincono del tutto. È noto come l’inversione del premio per il termine sia un segnale anticipatore di una imminente recessione. Per questo la Fed è tornata sui suoi passi: per non autorizzare aspettative recessive.

Il 2019 si è confermato un anno record per la capitalizzazione della Borsa statunitense (+31 per cento), ma la crescita degli utili ha flesso anziché accelerare. Gli utili non sono diffusi, ma concentrati. Le prime 30 società quotate conseguono il 50 per cento di tutti gli utili delle società quotate.

La nuova economia comporta una nuova lettura della congiuntura. Il lavoro, per esempio è più precario. Il tasso di disoccupazione aggiustato per i lavori part-time e occasionali è pari al 7 per cento. Trentasette milioni di americani vivono ancora in povertà, 35 milioni fanno la spesa al supermercato con i food stamps governativi per i meno abbienti, 27 milioni di lavoratori non hanno un’assicurazione sanitaria e ben 77 milioni sono iscritti nel programma federale Medicaid, che paga le spese mediche.

A considerare la situazione nell’insieme, né le famiglie mediane, né i lavoratori medi, né le imprese hanno visto crescere i loro redditi in proporzione pari al Pil. Secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz, il 90 per cento degli americani sta peggio che nel 1975.

La politica commerciale è uno dei cavalli di battaglia della Trumpnomics: scardinare gli accordi multilaterali, per negoziare accordi commerciali bilaterali facendo valere il peso maggiore degli Usa. Anziché stimolare la produzione interna, i dazi hanno però depresso i consumi e la produzione di tutto il mondo e sono i maggiori responsabili del rallentamento della congiuntura mondiale (il Pil mondiale nel 2019 è cresciuto del 3 per cento, il valore più basso dalla crisi del 2008-2009).

Anche la politica economica di Trump ha mancato di produrre i risultati attesi. Per quanto la Casa Bianca tenda ad ascrivere alla Trumpnomics i successi in materia di occupazione, crescita
del Pil, reshoring e salita della Borsa, questi successi sono tutto sommato limitati e la riforma fiscale ha reso più vulnerabile il bilancio pubblico futuro, facendo salire al 106,7 per cento il quoziente tra debito federale e Pil (120,7 per cento, quasi come l’Italia, quello che consolida anche i debiti degli Stati e quelli locali).

L’economia americana del XXI secolo non assomiglia più a una locomotiva, quanto a un aliante. Non traina più alcun vagone.

L’Unione Europea fra tensioni interne e sfide geopolitiche

Il “centro-sinistra” non ha più raggiunto la maggioranza assoluta, ma il populismo, soprattutto quello di destra, e quindi il sovranismo, pur aumentando i propri consensi, non ha “sfondato”. Infine, tra “centro-sinistra” e populisti si è inserita una Terza Forza, costituita dai Liberali e, potenzialmente, dai Verdi, che cambia le regole del gioco dando la priorità a nuove problematiche.

Al secondo posto si colloca una posizione “dura” su web e web tax, che potrebbe portare l’Unione Europea a distinguersi dal resto dell’OCSE. Il terzo cardine è costituito dalla politica dell’immigrazione, sulla quale la nuova Commissione si è impegnata a presentare nella prima parte del 2020, un “patto UE per l’immigrazione” che riformi radicalmente il Trattato di Dublino e riconosca l’immigrazione come problema europeo.

Le nuove dimensioni del lavoro e la digital transformation

Tra il 2017 e il 2018 il tasso di occupazione nei Paesi OCSE risulta in moderato aumento, così come nell’area Euro, negli Stati Uniti e anche in Italia (dal 58 al 58,5 per cento). Tuttavia il lavoro continua a essere in cima alle preoccupazioni generali. Una prima risposta arriva dalla lettura del tasso di sottoccupazione, un nuovo indicatore che, oltre ai disoccupati, considera anche le
persone inattive ma disponibili a lavorare e gli occupati a tempo parziale ridotto o involontario. All’inizio del 2018 la sottoccupazione risultava essere il doppio della disoccupazione negli Stati Uniti (8,1 per cento vs. 4,2 per cento) e nell’area Euro (16,6 per cento vs. 8,1 per cento) e più del doppio in Italia (25,3 per cento vs. 11,2 per cento), valori che segnalano una criticità circa la qualità dell’occupazione che è stata generata nella fase successiva alla Grande Recessione.

Il Rapporto dedica molta attenzione ai processi di divergenza e di concentrazione che caratterizzano il modello economico contemporaneo, evidenziando la riduzione della quota di reddito attribuita al lavoro e le “polarizzazioni occupazionali”, che privilegiano i mestieri non routinari e quelli molto qualificati a svantaggio dei livelli intermedi.

Una quota consistente della nuova occupazione si è concentrata nelle cosiddette “regioni capitali”. In Italia, ad esempio, oltre il 70% dell’occupazione aggiuntiva generata a livello regionale tra il 2011 e il 2016 si è concentrata nel Lazio e in Lombardia, ossia intorno a Milano e a Roma.

Un ulteriore interrogativo deriva dall’andamento della produttività del lavoro, dimezzata rispetto al decennio precedente (nei Paesi OCSE dal 2,3 all’1,2 per cento su base annua), con inevitabili ripercussioni sulle retribuzioni, anch’esse cresciute molto meno (dal 2,2 al 1,2 per cento su base annua).

Nel complesso, il quadro appare “incerto”, una nuova configurazione del mercato del lavoro alla quale i diversi attori economici, istituzionali e della ricerca faticano ad adattarsi. Su questa complessa situazione si innestano alcuni fattori di cambiamento, che rappresentano le ineludibili sfide del futuro. Il principale è rappresentato dalla marcia dei robot. Nel 2017 sono stati prodotti nel mondo 381.000 robot industriali, quasi cinque volte rispetto al 2009, mentre l’OCSE stima che l’intensità di capitale sotto forma di tecnologie digitali per ora lavorata negli ultimi vent’anni è triplicata in Francia e in Italia, quadruplicata in Spagna, quintuplicata in Germania e Regno Unito ed è quasi sei volte negli Stati Uniti.

Gli effetti della digital transformation sul lavoro restano oggetto di congetture, ma un primo modello economico dell’impatto occupazionale della robotizzazione di massa ipotizza nel 2030 un saldo occupazionale netto del -10 per cento nei Paesi dell’UE e del -9 per cento negli Stati Uniti. Le prospettive di crescita sono però rese incerte da altri due fattori trasformativi imponderabili, il
cambiamento climatico e la guerra commerciale avviata da Donald Trump.

La dinamica della globalizzazione rallenta

La dinamica della globalizzazione rallenta. Una prima spiegazione è che il ruolo della manifattura, preminente nelle prime fasi dello sviluppo, si riduce con il tempo a favore di quello dei servizi.
Una seconda spiegazione è la diffusione dell’automazione che rende meno rilevante il costo del lavoro sul costo totale di un prodotto. Per conseguenza si riducono sia la competitività dei Paesi con bassi salari, sia il flusso di investimenti che vanno nella loro direzione.

I profitti delle imprese quotate, soprattutto negli Stati Uniti, si stanno concentrando, in pochi settori e poche imprese. Il costo del denaro dovrebbe restare compresso con il finanziamento a basso costo sia del debito pubblico sia di quello delle famiglie. Lo svantaggio è la sopravvivenza delle imprese inefficienti, quelle non in grado di pagare degli interessi “normali”, e la crescita cospicua del debito di minor o di bassa qualità, che un giorno, col ritorno degli interessi a dei livelli “normali”, diventerebbe molto rischioso.

Il quadro mondiale degli istituti di credito è quanto mai variegato. In Europa le banche faticano a generare reddito ma negli USA il primo semestre del 2019 è stato per le grandi banche americane foriero di utili. E se le banche americane sono le più redditizie, si potrebbe dire che quelle cinesi sono le più grandi e quelle di alcuni paesi del Far-east come Singapore le più innovative.

Per le banche europee?

Ci sono almeno due temi chiave: continuare il processo di risanamento e pulizia degli attivi e rafforzare la sostenibilità dei modelli di business, in modo da garantire la capacità di generare reddito anche in futuro.

I nuovi volti del sistema capitalista

All’inquieto orizzonte mondiale di capitale e lavoro fanno da contrappunto l’inquietudine e l’instabilità del capitalismo come sistema produttivo. Le tradizionali divisioni in settori stanno scricchiolando e non solo l’”economia delle reti” si inserisce in pressoché tutti i comparti produttivi, ma i “giganti digitali” sono usciti dalla loro “gabbia settoriale” per fare il loro ingresso nelle attività più varie, dall’industria alla distribuzione e alla finanza. Le novità del sistema produttivo si stanno ripercuotendo, a una velocità forse senza precedenti nella storia, sulle abitudini di vita – e in particolare di consumo – di più di metà della popolazione del mondo. In questa loro espansione, i “giganti digitali” si stanno inevitabilmente scontrando con il potere pubblico e si devono confrontare con la società nel suo insieme, sia nei Paesi avanzati sia in quelli in via di sviluppo in cui prevalgono ancora importanti aree di povertà.

Si delinea così un mondo nuovo, forse l’anteprima di un futuro radicalmente nuovo. Il primo chiaro esempio è la distribuzione per grandi territori degli utilizzatori di Internet. All’incirca la metà degli utilizzatori di Internet si trova in Asia, mentre America settentrionale, Europa e Australia non arrivano complessivamente al 25 per cento.

Non ancora altrettanto chiaramente appare nelle statistiche la rapidissima corsa dell’Africa, dove i collegamenti via Internet sono particolarmente importanti.

L’interazione tra le grandi imprese tecnologiche e le politiche economiche dovrebbe portare i governi ad azioni non già isolate ed estemporanee bensì concertate, le sole che possono veramente modificare la politica della dichiarazione dei redditi delle multinazionali (non solo nel settore Internet, ma anche di molte grandi imprese in settori «normali»). Il mondo appare percorso da ondate di innovazioni fondamentali in sequenza e da ondate “laterali” che diffondono le nuove tecnologie nei vari settori con la condivisione di beni un tempo personali, i sistemi dei pagamenti, la distribuzione via Internet e così di seguito. Il tutto crea pressioni sociali ed è difficile prevedere un rapido adattamento umano.

Trump-Putin, un rapporto indecifrabile: Washington si allontana e la Cina si avvicina

Prosegue (e per molti versi si aggrava) la crisi dell’ordine internazionale a guida statunitense, con un progressivo arroccamento degli Stati Uniti dentro alla grande “fortezza America”, d’incerta logica geopolitica e di dubbio successo.

L’amministrazione Trump appare sempre più ondivaga sulle grandi scelte di politica internazionale, tanto da far dubitare che vi sia davvero una “grand strategy” dietro alle sue mosse. In questo clima di generale incertezza, sembrano tuttavia delinearsi due obiettivi-guida dell’azione della presidenza Usa.

Il primo, frenare il più possibile l’ascesa della nuova potenza globale cinese.

Il secondo, declassare la Russia a potenza di secondo rango, malgrado conservi un notevole arsenale strategico.

L’Europa, in questo contesto internazionale, continua di fatto a essere assente. Bruxelles ha dimostrato di non avere la forza politica per adottare le misure necessarie a salvaguardare il suo rapporto autonomo con Teheran, preservando il Trattato per il controllo della politica nucleare iraniana (JCPOA) denunciato dagli Usa. Altro elemento di debolezza è l’incapacità di trovare una sintesi d’interessi comuni nella crisi libica. Last but not least, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, lascia indubbiamente più debole tanto chi se ne va quanto chi resta, soprattutto da un punto di vista politico.

Un ulteriore freno alle aspirazioni europee di una crescente autonomia politica dagli Usa giunge dall’incapacità di aumentare la propria integrazione militare: sembra star bene a tutti restare sotto l’ombrello protettivo della Nato.

Il Medio Oriente resta senza pace

I precari equilibri finora delineatipossono crollare a partire dal Medio Oriente, dov’è al culmine la pressione americana per abbattere il regime iraniano. Resta di fatto irrisolto il conflitto siriano, mentre la Russia e il regime di Assad lentamente erodono le ultime sacche di resistenza dei ribelli antigovernativi. Manca tuttora un’ipotesi di soluzione politica. Altrettanto insolute sono le crisi yemenita e libica.

Si è infine cominciato a delineare il piano Usa per ridisegnare gli equilibri regionali dell’intero Medio Oriente partendo dall’economia. Ma l’enorme quantità di denaro mobilitata non sembra in grado di far cedere i palestinesi sul piano politico.

In Afghanistan il governo filo-americano appare prossimo al collasso. Resta da capire come gli Usa assorbiranno questa debacle: è il palese fallimento di 18 anni d’intervento militare, costati oltre 1.000 miliardi di $, ed è possibile che il territorio afgano diventi la nuova retrovia del Califfato sconfitto.

La sfida americana alla Cina sta inevitabilmente accentuando l’instabilità dell’intera Asia. A una sorta di “cintura di contenimento”, stesa da Washington con la partecipazione di Giappone, Sud Corea, Australia, Vietnam, Indonesia e India, si contrappone a una rete di Paesi pronti a schierarsi con Pechino (Pakistan, parte dei membri dell’Asean, Sri Lanka e vari micro-stati dell’oceano Pacifico), tutti attratti dalle enormi risorse economiche stanziate nell’ambito della Belt and Road Initiative.

L’Italia: riprendere la crescita non è impossibile

Il bilancio decennale della ripresa fa spiccare gli Stati Uniti come il più dinamico tra i grandi paesi sviluppati. Il suo Pil è aumentato del 25 per cento. In Europa, il campione di crescita è la Germania, il cui Pil è cresciuto di 21 punti percentuali dal 2009. Più debole di quella della Germania è stata la crescita della Francia: 14 per cento. L’Italia è cresciuta solo del 2 per cento nel decennio (meno di 0,2 per cento per anno), a causa di almeno due fattori: la ricaduta in recessione nel 2013 e la persistente consuetudine, anche negli anni buoni, a non superare mai bassi tassi di crescita del Pil, ridotto a marciare al ritmo di “zero virgola”.

Il 2017 e il 2018 si erano caratterizzati per una bilancia corrente con l’estero eccezionalmente positiva. Prima della crisi, ossia nel 2008, il saldo della bilancia corrente era negativo su livelli attorno al -3 per cento. Passati dieci anni, il saldo di bilancia corrente è divenuto fortemente positivo: l’economia italiana vende all’estero oltre 5 punti di Pil in più di prima, peraltro con una ragione di scambio migliorata grazie al contributo di un notevole miglioramento qualitativo (il merito di questo progresso è del manifatturiero).

Nel 2018 la parabola della crescita del Pil tocca precocemente il suo culmine e flette prima ancora di superare la barriera del 2 per cento. La caduta avviene d’improvviso e confuta l’innesco definitivo del circuito virtuoso della crescita. L’8 marzo del 2018 Donald J. Trump firmava infatti il decreto che fissava dazi del 25 e del 10 per cento sull’acciaio e l’alluminio, accelerando la strategia neo-protezionistica, destinata a raffreddare l’economia mondiale. Il contagio raggiunge paesi cardine per le esportazioni italiane, come la Germania.

Non è una situazione nella quale l’economia italiana possa trovarsi per lunghi periodi, senza rischi. Senza crescita per un lungo periodo si complica la capacità di sostenere tanto il debito pubblico, quanto le spese per il welfare state necessario e conseguente ai cambiamenti demografici, ossia all’invecchiamento della popolazione.

Quasi uno scivolone, si è compiuto proprio nel 2019, come evidenzia l’osservazione dei tassi di variazione del valore aggiunto. Un settore su due mostra una discesa del relativo valore aggiunto.

L’industria manifatturiera (-1,1 per cento) riporta la variazione negativa che forse risalta di più, giacché alla produzione di manufatti per l’export l’economia generale deve la ripresa precedente. Sempre nel 2019 si è pressoché azzerata la crescita del valore aggiunto nel commercio, che fino al 2018 ha rappresentato il settore nel quale si erano creati i due terzi dei nuovi lavori. In questo settore si è verificata una accelerazione dell’e-commerce, che comporta una sostituzione tra lavoro e capitale e rivoluziona redditi da lavoro e occupazioni nel settore.

Il terzo settore che ha contribuito con la sua variazione negativa (-2,3 per cento) a buttar giù il Pil italiano nel 2019 è quello dei servizi (diversi da quelli pubblici e commerciali). Si tratta di un ambito estremamente diversificato. La flessione settoriale del 2019 segue alla stagnazione del 2018 e ciò pare doversi a qualcosa di più fondamentale della semplice variazione congiunturale.

Tuttavia il principale responsabile della mancanza di crescita di lungo periodo è lo “sciopero degli investimenti netti”. Dall’inizio del 2000 ad oggi il risparmio netto complessivo (ossia la somma del risparmio di famiglie, imprese e settore pubblico) è passato dal 6 per cento al 3,3 per cento del Pil, il che significa che lo spazio complessivo per i nuovi investimenti, quelli che accrescono il Pil potenziale, si è dimezzato. I sei punti di risparmio netto del 2000 andavano pressoché tutti negli investimenti e, in maggior parte, si trattava di investimenti produttivi. La successiva crisi ha cambiato il comportamento degli investitori, inducendone molti a tirare i remi in barca. Infatti, al termine del periodo considerato si registra un divario tra il risparmio netto (3,3 per cento del Pil) e l’investimento netto molto alto, che fa concludere che non solo il sistema ha generato meno risorse investibili, ma non ha investito neppure quelle che ha generato.

Annualmente, rispetto al 2000, circa 54 miliardi di investimenti potenziali non vengono più realizzati. Le cause dello sciopero degli investimenti non sono tutte negative. La nuova economia 4.0 comporta uno spostamento dell’interesse degli investitori verso gli investimenti immateriali. Nell’effervescente economia digitale gli investimenti tradizionali sono sostituiti dagli investimenti immateriali, il cui valore non ècalcolabile a priori. La condizione “liquida” degli investimenti immateriali determina una sottostima, quasi  sicura, degli investimenti, per cui la realtà potrebbe essere forse migliore della sua rappresentazione statistica, o anche peggiore, a seconda che si siano azzeccati o meno gli investimenti intangibili.

Nei primi cinquanta anni della globalizzazione, investire all’estero non era facile, perché comportava la delocalizzazione fisica di impianti e stabilimenti che si ammortizzavano in decenni. Chi compie un investimento immateriale sceglie invece il suo insediamento senza delocalizzare tonnellate di acciaio e calcestruzzo, bensì “viaggiando” attraverso i nodi di Internet ed ha un obiettivo di ritorno molto più breve che in passato. A convincere verso dove incanalare gli investimenti digitali è la crescita della produttività totale dei fattori.

In Italia, la dinamica della produttività totale dei fattori è però stata addirittura negativa tra il 2000 e il 2009 e solo dal 2010 essa è diventata neutrale o moderatamente positiva, il che ha rafforzato lo sciopero degli investimenti, in un contesto caratterizzato dalla ultramobilità del capitale.

Nel corso del 2019 è continuato il miglioramento della qualità degli attivi delle banche, un processo ormai in atto dal 2015. Le esposizioni deteriorate nei bilanci delle banche sono diminuite da 341 miliardi di Euro nel 2015 a 180 miliardi di Euro a fine 2018, fino a 165 miliardi di euro nel primo semestre 2019.

I mercati, però, non temono solo i rischi ancora presenti nei bilanci delle banche, ma anche la scarsa redditività che ha contraddistinto gli ultimi anni, in cui gli operatori non sono riusciti a ottenere profitti in grado di ripagare il costo del capitale impiegato.

In definitiva, il “tilt del Pil” non è solo il frutto della crisi, ma si è generato ben prima, con il calo della produttività totale dei fattori. Con la crisi, tuttavia, molte cose sono cambiate. Si è dimezzata la formazione del risparmio netto, al quale si attinge per gli investimenti netti. In aggiunta, dopo la ristrutturazione dell’economia, il potenziale investimento netto, pari a circa 50 miliardi non viene realizzato, bensì accantonato.

Riprendere la crescita non è impossibile. Si tratta di contare di più sulla capacità endogena di convincere gli investitori italiani e attrarre investitori esteri, innalzando la produttività totale dei fattori, essa stessa a sua volta dipendente dal capitale fisico infrastrutturale, dal progresso tecnico, dal capitale umano, nonché e dal capitale sociale.

In ciascuno di questi ambiti l’Italia continua a marciare con il freno a mano tirato. La spesa pubblica in conto capitale è in discesa dall’anno 2000. Nel campo del capitale umano, l’Italia produce solo 113 mila laureati in discipline scientifiche e tecnologiche all’anno. Le virtù del progresso tecnico si sprigionano dalla spesa per ricerca e sviluppo, ma in Italia essa ammonta all’1,36 per cento del Pil, contro la media quasi doppia (2,4 per cento) dei paesi aderenti all’Ocse.

Al cuore delle difficoltà italiane vi è un problema di fiducia, un problema domestico, che si può e si deve affrontare. Abbiamo bisogno di rimettere in moto gli investimenti pubblici, per il sistema delle imprese mettere in atto strumenti che favoriscano la crescita dimensionale piuttosto che penalizzarla. La vitalità dell’export nazionale e la resilienza del settore manifatturiero sono un punto di forza su cui fare leva, anche nel quadro delle opportunità offerte dalla transizione “verde”, a partire dall’automotive. Sostenere la transizione tecnologica con strumenti pubblici adeguati si può e si deve, e i fondi europei se ben impiegati si presterebbero benissimo allo scopo.

Per quanto riguarda le difficoltà famigliari e individuali, un governo che si prefiggesse di imparare da ciò che ha funzionato potrebbe far molto per migliorare la qualità della spesa sociale, facendo arrivare le risorse a chi ne ha bisogno.

Si tratta, in altre parole, di accettare l’inevitabilità del mutamento senza limitarsi a subirlo in maniera passiva, spaventata e rabbiosa. Se la politica si impegnerà a parlare il linguaggio del realismo e della conoscenza dei fatti e a fare leva sulle competenze e la voglia di impegnarsi che esistono in tante imprese e in tante persone, l’orizzonte potrebbe schiarirsi anche rapidamente, e le nuvole da scure diventare rosate.

Iscriviti al nostro canale Whatsapp e rimani aggiornato.
Vuoi leggere BergamoNews senza pubblicità?   Abbonati!
commenta

NEWSLETTER

Notizie e approfondimenti quotidiani sulla tua città.

ISCRIVITI