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Il ricordo

Kobe, la leggenda che ispirò il presidente degli Usa e mi ha fatto piangere due volte

Il mondo del basket perde uno dei suoi più grandi interpreti di sempre: il suo gesto di addio al gioco venne replicato da Barack Obama che stava per lasciare la Casa Bianca.

La notizia mi arriva da una chat WhatsApp: “È morto Kobe Bryant”. 

“È uno scherzo” penso. Di cattivo gusto, certo, ma non può che essere uno scherzo.

Mi ero svegliato con una sua foto postata su Instagram, sorridente al fianco di LeBron James che l’aveva appena scalzato dal terzo posto dei migliori marcatori di ogni tempo della Nba.

Ma i media americani, purtroppo, confermano tutto: a bordo di quell’elicottero schiantatosi sulle colline di Los Angeles c’erano lui, la figlia 13enne Gianna e altre sette persone.

Buio e sconforto: per la seconda volta, dopo l’annuncio del suo ritiro nel novembre 2015, mi trovo improvvisamente senza parole e con gli occhi lucidi. Era già dura accettare di non vederlo più in campo, così è insopportabile. 

Kobe Bryant è stato il motivo per cui mi sono avvicinato al mondo del basket, non posso non definirlo un idolo: notti insonni per seguire i suoi Lakers, la squadra che inevitabilmente è diventata quella per cui faccio il tifo, sempre con un occhio sull’8, che poi sarà 24 e segnerà un’intera generazione di appassionati.

Negli Usa li chiamano uomini-franchigia, sono i giocatori più forti, quelli attorno al quale ruota tutto e si costruiscono le squadre: Bryant è stato quello per eccellenza, vestendo sempre e solo la maglia gialloviola della sponda più nobile della Los Angeles del basket, con la quale vincerà 5 titoli Nba.

Una classe cristallina, per buona parte sicuramente innata o ereditata da papà Joe e per il resto frutto dell’ossessione di voler essere il più forte di tutti: per anni ha dominato il gioco, aspirando alla perfezione, sfidando in modo sfacciato anche il mito (suo innanzitutto) di Michael Jordan.

Lo ha fatto nell’All Star Game del 2003 ad Atlanta, che doveva essere la passerella d’uscita di Mj, apparecchiata nei minimi dettagli. Jordan decisivo quando si è messo da parte il semplice show per iniziare a fare sul serio, finale perfetto per tutte le scenografie del mondo: segna dall’angolo, cadendo all’indietro e con la mano di Shawn Marion in faccia, a cinque secondi dalla fine del supplementare.

Per tutte le scenografie del mondo, si diceva. Tranne per quella scritta da mister Kobe Bean Bryant, che dall’altra parte del campo si prende un fallo, segna due liberi e manda la partita a un ulteriore overtime.

Questo era Kobe sul campo, un cannibale che voleva tutto. Ma uno come lui non si può ridurre alle sole capacità tecniche e sportive: per capire il suo valore bisogna uscire dal parquet e pensare a una scena che con la pallacanestro c’entra poco.

Nel suo discorso di congedo dalla Casa Bianca, di fronte ai giornalisti americani, Barack Obama chiude con qualcosa di eclatante: “Obama out”, dice, e poi lascia cadere platealmente a terra il microfono.

Negli Stati Uniti il gesto non può passare inosservato, con un flashback fin troppo semplice: sei mesi prima, il 14 aprile 2016, lo avevano già visto allo Staples Center di Los Angeles, per l’ultima di Kobe.

Una serata dalle mille emozioni, in cui segna 60 punti contro Utah e dimostra al mondo che a fargli dire basta sono solamente le noie fisiche che lo tormentano e che non gli avrebbero più permesso di essere il migliore.

Ma tutti a Los Angeles, dopo aver pianto per l’annuncio del suo ritiro ed essersi emozionati con una lettera-dedica al basket che trasformata in cartone animato vincerà addirittura l’Oscar, attendono solo che prenda la parola.

Kobe ringrazia tutti, manda messaggi d’amore a quello che per 20 anni è stato il suo pubblico e alla famiglia e poi saluta: “Mamba (il suo soprannome ndr) out”, microfono a terra.

Il Bryant fenomeno della palla a spicchi ha ispirato il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Di lui mi rimarranno quelle meravigliose notti in bianco e lo stringersi la maglietta tra i denti nei momenti decisivi delle partite, oltre a un’iconica canotta gialloviola col 24 che custodirò ancor più gelosamente nel cassetto.

Nella sua lettera d’addio, Kobe disse che sarebbe rimasto per sempre “quel bambino con i calzini arrotolati, con un bidone della spazzatura nell’angolo, cinque secondi sul cronometro e la palla tra le mani”: il suo racconto si fermava lì, ma tutti noi non abbiamo fatto fatica ad immaginare il finale di quella storia. 

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