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La ricorrenza

Animali, auto e biligòcc: dove nasce la devozione per Sant’Antonio

A questo santo vengono assegnati molteplici significati, ma non tutti ne conoscono le motivazioni: vi proponiamo un viaggio alla scoperta della sua storia che offre interessanti spunti di riflessione

Il culto di sant’Antonio Abate ha origini antichissime. Questo santo, da non confondere con sant’Antonio da Padova, è una delle figure più amate e venerate della cristianità e non solo. Nel calendario dei santi della chiesa cattolica e in quello luterano viene ricordato il 17 gennaio: questa data si riferisce al giorno in cui morì, nel 356, nel deserto della Tebaide, in Egitto. La chiesa copta, invece, lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi.

Nell’immaginario collettivo è considerato protettore degli animali, ma il suo nome richiama subito alla mente anche la benedizione delle macchine e le bancarelle sul Sentierone con i tradizionali biligòcc. Gli vengono assegnati molteplici significati, ma non tutti ne conoscono le motivazioni: vi proponiamo un viaggio alla scoperta della sua storia che offre interessanti spunti di riflessione.

Le informazioni sulla sua esistenza sono state tramandate soprattutto attraverso la “Vita Antonii”, opera agiografica scritta nel 357 circa da Atanasio, vescovo di Alessandria, che conobbe Antonio e fu da lui coadiuvato nella lotta contro l’arianesimo. L’opera, tradotta in varie lingue, divenne popolare tanto in Oriente quanto in Occidente e diede un contributo importante all’affermazione degli ideali della vita monastica. Infatti, Antonio è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio.

Un altro significativo riferimento bibliografico è contenuto nella “Vita Sancti Pauli primi eremitae” scritta da san Girolamo negli anni 375-377, che narra l’incontro, nel deserto della Tebaide, di Antonio con il più anziano Paolo di Tebe. Il racconto dei rapporti tra i due santi (con l’episodio del corvo che porta loro un pane, affinché si sfamino, sino alla sepoltura del vecchissimo Paolo per opera di Antonio) vennero poi ripresi anche nei resoconti medievali della vita dei santi, in primo luogo nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze.

LA VITA – Antonio nacque a Coma in Egitto (l’odierna Qumans) intorno al 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent’anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, ben presto sentì di dover seguire l’esortazione evangelica: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri”. Così, distribuiti i beni ai bisognosi e, affidata la sorella a una comunità femminile, seguì la vita solitaria che già altri anacoreti conducevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità.

Si racconta che ebbe una visione in cui un eremita come lui riempiva la giornata dividendo il tempo tra preghiera e l’intreccio di una corda. Da questo dedusse che, oltre alla preghiera, ci si doveva dedicare a un’attività concreta. Così condusse da solo una vita ritirata, dove i frutti del suo lavoro gli servivano per procurarsi il cibo e per fare carità. In questi primi anni spesso venne tormentato da tentazioni fortissime e lo assalivano molti dubbi sulla validità di questa vita solitaria. Consultò altri eremiti che lo spronarono a continuare nella propria scelta e di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo. Allora, coperto solamente da un panno, si chiuse in una tomba scavata nella roccia vicino al villaggio di Coma. Qui sarebbe stato aggredito e percosso dal demonio; senza sensi venne raccolto da persone che si recavano in quel luogo per portargli del cibo e fu trasportato nella chiesa del villaggio, dove si riprese.

In seguito si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Era il 285 e vi restò per vent’anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all’anno. Nel frattempo, proseguì la sua ricerca di totale purificazione, pur essendo ancora tormentato, secondo la leggenda, dal demonio.

Con il tempo molte persone vollero stare vicino a lui che si dedicò a lenire i sofferenti compiendo, secondo la tradizione, “guarigioni” e “liberazioni dal demonio”.
Il gruppo dei seguaci di Antonio si divise in due comunità, una a oriente e l’altra a occidente del fiume Nilo. Questi Padri del deserto vivevano sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come riferimento spirituale.

Visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, all’età di 105 anni, probabilmente nel 356. Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto. La storia della traslazione delle reliquie di sant’Antonio in Occidente si basa principalmente sulla ricostruzione elaborata nel XVI secolo da Aymar Falco, storico ufficiale dell’Ordine dei Canonici Antoniani.

Dopo il ritrovamento del luogo di sepoltura nel deserto egiziano, intorno alla metà del sesto secolo, le reliquie sarebbero state prima traslate nella città di Alessandria poi, a seguito dell’occupazione araba dell’Egitto, sarebbero state portate a Costantinopoli (670 circa). Nell’XI secolo il nobile francese Jaucelin, signore di Châteauneuf, nella diocesi di Vienne, le ottenne in dono dall’imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato. Qui il nobile Guigues de Didier fece costruire una chiesa che accolse le reliquie poste sotto la tutela del priorato benedettino che faceva capo all’abbazia di Montmajour (vicino ad Arles, in Provenza).

Nello stesso luogo si originò il primo nucleo di quello che divenne l’Ordine degli Ospedalieri Antoniani, la cui vocazione originaria era quella dell’accoglienza delle persone affette dal fuoco di sant’Antonio. L’afflusso di denaro proveniente dalla questua fece nascere forti contrasti tra il priorato e i Cavalieri Ospitalieri. I primi furono costretti così ad andarsene ma portarono con se la reliquia della testa di Sant’Antonio. A partire dal XV secolo, il priorato iniziò a sostenere di possedere la sacra reliquia, sottratta durante la fuga agli antoniani. La sacra reliquia venne solennemente riposta ad Arles nella chiesa di Saint-Julien, di loro proprietà. Inoltre, se a partire dall’XI secolo incomincia a svilupparsi il culto nella città di Saint-Antoine-L’Abbaye, attorno alle sue spoglie, nello stesso periodo si origina la tradizione che narra della presenza del corpo del santo all’interno dell’abbazia di Lézat (Lézat-sur-Léze). Quindi i corpi di Antonio, in Occidente, diventano tre, e tali rimarranno fino al XVIII secolo.

In Italia, la reliquia insigne del braccio del santo anacoreta è conservata a Novoli, in Puglia, nel santuario dedicato.

IL FUOCO DI SANT’ANTONIO – Nelle immagini viene spesso ritratto con il diavolo e con un maialino. Il diavolo lo tentò diverse volte nel deserto. Una leggenda narra che Antonio si recò all’inferno per rubargli il fuoco, e che mentre lui lo distraeva, il suo maialino corse dentro le fiamme, rubò un tizzone e lo portò fuori per donarlo agli uomini.

Il maiale è legato anche ad un’altra tradizione: nel corso del Medioevo il papa concesse ai monaci antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio: i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade e, per evitare che qualcuno li rubasse, avevano al collo una campanella di riconoscimento. Il loro grasso, unito a erbe officinali, era un antidoto contro l’herpes zoster, noto come “fuoco di sant’Antonio”.

Nei secoli il santo è diventato protettore dei maiali, degli animali domestici e di tutte le professioni a loro legate, il lavoro nei campi e le stalle (dove non mancava la sua raffigurazione sulla porta d’entrata), i contadini, gli allevatori e i macellai. Secondo una leggenda del Veneto e dell’Emilia, la notte del 17 gennaio gli animali acquisiscono la facoltà di parlare. Durante questo evento i contadini si tenevano lontani dalle stalle, perché udire gli animali conversare era segno di cattivo auspicio e si racconta di un contadino che, preso dalla curiosità di sentire le mucche parlare, morì per la paura.

GLI ANIMALI – La tradizione di benedire gli animali (in particolare i maiali) non è legata direttamente a sant’Antonio: nasce nel Medioevo in terra tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da destinare all’ospedale, dove prestavano il loro servizio i monaci di sant’Antonio.

A partire dall’XI secolo gli abitanti delle città si lamentavano della presenza di maiali che pascolavano liberamente nelle vie e i Comuni s’incaricarono allora di vietarne la circolazione ma fatta sempre salva l’integrità fisica dei suini “di proprietà degli Antoniani, che ne ricavavano cibo per i malati, balsami per le piaghe, nonché sostentamento economico. Maiali, dunque, che via via acquisiscono un’aura di sacralità e guai a chi dovesse rubarne uno, perché Antonio si sarebbe vendicato colpendo con la malattia, anziché guarirla”.

IL SALE – Sempre al mondo agricolo si rifà l’usanza di benedire il sale: il sale benedetto veniva infatti consumato dal bestiame con la speranza che servisse ad evitare le terribili malattie degli animali che creavano notevoli danni economici ad un mondo contadino che si basava su un’agricoltura di sussistenza.

IL FALO’ – Ancora oggi il 17 gennaio in molte località italiane si accendono grandi fuochi, per celebrare la vittoria della luce sul buio e trasmettere l’augurio di raccolti fecondi e abbondanti.

PIZZAIOLI E FORNAI – Dal fuoco deriva l’immagine di Sant’Antonio protettore dei fornai e dei pizzaioli. Non è una coincidenza, infatti, che il 17 gennaio si celebra la giornata mondiale della pizza.
Sembra che in passato le famiglie di fornai e pizzaioli per celebrare il loro santo protettore, fermassero le loro produzioni e si radunassero tutti insieme intorno ad un grande fuoco in segno di ringraziamento.

LA CAMPANELLA – Un altro attributo tipico del santo è la campanella, tenuta in mano, legata al bastone o appesa al collo del maiale. Con la campanella i monaci antoniani annunciavano il loro arrivo durante gli spostamenti e le questue, e con essa venivano scacciati gli spiriti maligni.

LE MACCHINE – Dalla protezione del lavoro dei campi è derivata la benedizione dei mezzi agricoli. Nel tempo, poi, ai carri si sono affiancati i veicoli che vengono utilizzati quotidianamente sulle strade, cioè auto, moto e bici. Al tempo stesso, agli animali da cortile sono subentrati quelli da appartamento, ma la fede è rimasta viva: le benedizioni vedono lunghe file di fedeli provenienti dalla città e dalla provincia, alle quali viene consegnata la classica immaginetta con il santo circondato da animali.

ALTRE TRADIZIONI – Sant’Antonio è invocato anche per ritrovare oggetti smarriti e, un tempo, dalle ragazze in cerca di marito.

A BERGAMO – Il culto di Sant’Antonio abate a Bergamo venne introdotto nel XIV secolo grazie ai frati Antoniani che officiavano nella chiesa di via Locatelli, che allora era inglobata nell’ospedale cittadino.

I BILIGOCC – A Bergamo, nell’attuale piazza Matteotti, sorgevano l’ospedale e la chiesa di Sant’Antonio di Vienne, costruiti verso la fine del 1300. Gli edifici del complesso erano ancora riconoscibili nei primi decenni dell’Ottocento quando vennero venduti alla famiglia Frizzoni che vi edificò la sua residenza cittadina che poi venne adibita a municipio. Vicino alla chiesa si tiene la sagra di sant’Antonio con i tradizionali biligòcc, castagne fatte essiccare e poi affumicate sopra i secadùr di legno, raccolte in lunghi fili. Ci sono le bancarelle che ricordano i banchetti che popolavano l’antica piazza, luogo d’incontro da generazioni. Il ricavato della fiera in passato veniva utilizzato per i corredi dell’ospedale e così ogni anno in questo giorno la tradizione si ripete.

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