Dopo il crollo del comunismo nell’Europa orientale, la storia dell’UE subì un’inevitabile accelerazione.
Nel 1992, a Maastricht, i dodici membri della CEE firmarono il celebre trattato, che trasformava la Comunità Europea in Unione Europea, assorbendone le convenzioni ed istituendo i più volte citati tre pilastri.
Nel 1994, anche Austria, Finlandia e Svezia entrarono a far parte dell’Unione. Tre anni più tardi, col trattato di Amsterdam, in realtà entrato in vigore nel 1999, si fece un altro passo importante verso l’unione: furono assorbiti dall’UE gli accordi di Schengen sulla libera circolazione di merci e persone, stipulato nel 1985, che prima riguardavano soltanto Francia, Germania e Benelux.
I tempi erano ormai maturi per un allargamento ulteriore dell’Unione, che includesse gli stati ex comunisti: proprio in questa chiave fu concepito il fondamentale trattato di Nizza, del 2001 ma in vigore dal 2003, che modificava i trattati di Maastricht e di Roma e sanciva le regole di composizione della Commissione europea, i criteri di voto e di rappresentanza e, in generale, tutti gli aspetti legati alla gestione politica della futura UE.
Infine, si giunse all’introduzione dell’euro, la moneta comune, oggi oggetto di tante polemiche: era il primo gennaio del 2002 e dodici stati europei erano diventati un solo mercato monetario. Mi preme aggiungere una notizia, per sfatare certe stupidaggini che circolano da sempre sui social: non è affatto vero che il passaggio all’Euro ci abbia penalizzati nei confronti della Germania, che avrebbe ottenuto un cambio alla pari (1 euro=1 marco), quando il marco valeva circa 900 lire. I Tedeschi ottennero un cambio sostanzialmente analogo al nostro (1,95583 marchi=1 euro): la svalutazione del nostro potere d’acquisto derivò, semmai, da un ingiustificato aumento dei prezzi in Italia, dopo il passaggio all’euro.
Ciò detto, a questo punto si era pronti ad allargare l’UE ai nuovi membri e, infatti, a partire dal 2004, entrarono a farne parte la Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia e Ungheria (2004), in seguito, Bulgaria e Romania (2007) e, infine Croazia (2011). Questo cammino, se descritto semplicemente nelle sue tappe essenziali, potrebbe apparire una specie di romantica passeggiata, in cui, un poco alla volta, l’Europa ricuciva i suoi strappi, superava le sue decisioni e, alla fine, perveniva ad un lietissimo fine.
La realtà, purtroppo, è ben diversa: per cominciare, proprio nell’ottica di dare all’Unione maggiore solidità identitaria, si cercò di dotarla di una vera e propria costituzione: un documento che inglobasse tutti i trattati, semplificasse le prassi e, soprattutto, desse indicazioni anche di carattere culturale e civile. La stesura dello statuto europeo si concluse a Roma, nell’ottobre del 2004: questa costituzione europea avrebbe dovuto entrare in vigore nel novembre del 2006, ma ciò non avvenne poiché la Francia e i Paesi Bassi, dopo un referendum, si rifiutarono di ratificarla.
Così, la carta rimase lettera morta e venne sostituita dal trattato di Lisbona del 2007 (entrato in vigore nel 2009).
Certo, Lisbona fu un passo importante verso l’affermazione di un comune stato europeo, ma non rispose a quelle esigenze di comunità spirituale e culturale che, invece, una costituzione avrebbe dovuto, per forza, considerare. A Lisbona, si superarono i tre pilastri, si incise in materia di diritti, ma l’Europa delle Nazioni ne rimase nuovamente esclusa.
A questo si aggiunga un ulteriore problema: i paesi ammessi all’Unione dopo la caduta del comunismo avevano un’idea di Europa alquanto differente, rispetto a quella francese o tedesca. Forse l’esperienza dell’internazionalismo sovietico ne aveva vaccinato i governi, rendendoli assai più nazionalisti dei loro omologhi occidentali: per questo, tra gli stati dell’ex COMECON che ora facevano parte dell’UE, si cominciò a ragionare di piccole alleanze, di blocchi omogenei, per contrastare le decisioni comunitarie che venivano ritenute irricevibili.
Di questo diremo, nella prossima puntata.
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