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9 ottobre 1963

Detriti, rottami e relitti di tante vite: il Vajont fu qualcosa più di un disastro

In caserma era arrivato l’allarme subito dopo la tragedia, nella notte del 9 ottobre 1963: immediatamente, gli uomini del Settimo reggimento erano stati fatti salire sui mezzi e avviati verso Longarone.

Lo storico Marco Cimmino racconta uno dei più grandi disastri della storia italiana: il 9 ottobre 1963 un’immensa ondata di acqua scavalcò la diga del Vajont, piombando sulla vallata sottostante.

“Avevano gli occhi sbarrati, nelle loro facce imbiancate dal fango secco del Piave: erano giovanissimi alpini di leva, della brigata Cadore, e avevano appena visitato un girone infernale.

Così, ce li mostrò la Rai: prime immagini di un incubo inimmaginabile, di una catastrofe increduta, eppure paventata, inutilmente, da chi aveva compreso e non fu ascoltato.

In caserma era arrivato l’allarme subito dopo la tragedia, nella notte del 9 ottobre 1963: immediatamente, gli uomini del Settimo reggimento erano stati fatti salire sui mezzi e avviati verso Longarone. Per primi, scendendo da nord, arrivarono quelli del ‘Pieve di Cadore’: subito dopo mosse il grosso della brigata, da sud. Dopo Ponte nelle Alpi, però, la strada non esisteva più e quei ragazzi marciarono a piedi, nel buio, tra gente terrorizzata, verso il paese.

Ma il paese non lo trovarono: Longarone aveva, semplicemente, cessato di esistere.

Trovarono, invece, una inverosimile massa di detriti, rottami, relitti di tante vite, improvvisamente schiantate dalla furia terrificante dell’acqua: e cominciarono a lavorare così, a mani nude, minuscoli e impotenti, di fronte a quella tragedia gigantesca. All’alba, guardando in alto, sulla sinistra di quello che era stato un fiume e che, ora, era una specie di colossale spianata di sabbia e ghiaia, videro la diga: altissima, incuneata tra due lame di pietra, malignamente intatta.

Il capolavoro dell’ingegneria italiana non era venuto meno alla sua fama: aveva resistito all’enorme ondata prodotta dalla frana del monte Toc, che aveva scagliato verso valle milioni di metri cubi d’acqua, alla velocità di un treno in corsa. Semplicemente, la grande onda, alta 250 metri, l’aveva scavalcata, come si fa con un muretto: ed era rovinata sul paesino bellunese, la cui gente, ignara, in buona parte guardava una partita di calcio in televisione. Morirono così quasi in duemila: molti per lo spostamento d’aria, più che per la violenza mostruosa della piena. I soldati li trovarono lungo il greto sconvolto del Piave: tantissimi nudi, perché la violenza era stata tale da strappar loro di dosso i vestiti.

Questo videro i giovani alpini, e i fotogrammi della tragedia sarebbero rimasti impressi sulle loro retine, come cicatrici.

Questa è l’immagine del Vajont che mi rimane in mente, dopo aver visto, durante il festival di Gorizia del 2013, lo sconvolgente filmato girato dai Vigili del Fuoco, fin dai primi soccorsi: un orrore impossibile da comprendere, da contenere e da accettare.

In quell’ ‘èStoria’ di sei anni fa, decidemmo di collocare la conferenza sull’anniversario del Vajont a fine giornata: saranno state le dieci di sera e pioveva a catinelle. Eppure, nonostante l’ora e la buferaccia, la tenda Apih si riempì di gente attenta e silenziosa: fu lì, guardando i volti degli spettatori, che compresi cosa fu veramente il Vajont. Non fu solo la macabra vittoria dell’oro sul sangue: non fu la ghirlanda di perizie e controperizie, di versioni e di smentite. E non fu neppure l’olocausto di un paese e di una valle.

Il Vajont fu la paura che ognuno di noi ha, nel fondo del suo cuore: la morte, il buio, il tuono orrendo delle trombe del giudizio. Il Vajont fu qualcosa più di un disastro: fu l’epitome di tutti i disastri. Colpì gente semplice, montanari che facevano la loro vita, cancellando un’intera comunità. E questo, ancora oggi, in questo infelice anniversario, può insegnarci la immane tragedia di Longarone: c’è sempre un Vajont in agguato, quando non si ascolta la natura, quando l’idea di profitto ci fa dimenticare il buon senso, ci tappa occhi ed orecchie.

Andate a Longarone: risalite quella valle, tornata amena. Respirate, annusate, la storia. Vedrete un paese nuovo nuovo, in cui nulla fa immaginare l’ecatombe; e vedrete un cimitero, anch’esso moderno e ordinato: ecco, è lì la vera Longarone.

È sottoterra. Prima di risalire in macchina, però, gettate un’occhiata davanti a voi, dall’altra parte della valle: guardate quel taglio netto nel monte e, in alto, scura e incombente, occhieggiare, ancora terribile, la gran diga. Se avete un po’ di immaginazione, vi sembrerà di sentire come un tuono formidabile, e la terra tremare.

Quella è la voce del Vajont”.

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