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La testimonianza

Due piccole Storie ignobili che mi porto sulle spalle

Mi auguro sempre che il freddo che mi viene nelle ossa e le lacrime che mi vengono al viso quando penso a questi zii che non ho mai visto e che sono morti in modo così orribile, svaniscano al sole di un futuro più umano, più attento ai valori di di eguaglianza tra diversi

Siamo in piena estate e il caldo eccessivo fa desiderare l’inverno e il freddo…
È l’occasione quindi per rispolverare storie antiche, legate al freddo, anzi, al Generale Inverno in Russia e poi, per concludere, parlare di quel 2 maggio del 1945 in Istria.

Il fratello di mia madre, Angelo Sanvito, lavorava alla Caproni di Ponte San Pietro nel periodo pre-bellico della seconda guerra mondiale. Pare avesse anche ottenuto il brevetto di pilota d’aereo che l’azienda a quel tempo rilasciava ai propri dipendenti in grado di volare.
Una vita tranquilla, un ragazzo giovane, capelli e occhi chiari come tutta la famiglia di mia madre e, a sentire i parenti, un ragazzo solare e molto sportivo.
Ma allo scoppio della guerra viene arruolato in fanteria e poi, insieme a decine di migliaia di altri ragazzi italiani, inviato sul fronte russo. Sparì nel nulla, come quasi tutti gli altri che non tornarono più.

Ma venne la Perestroika, gli archivi di stato furono resi, per un breve periodo, accessibili ai ricercatori e agli inviati dei vari ministeri di tutti quei paesi che per decenni avevano cercato i propri morti.

Angelo era morto nel famigerato campo n. 188 di Tambov, vicino alla cittadina di Rada, a sud est di Mosca. Qui arrivarono più di diecimila italiani (circa settemila Alpini della Julia) tra il dicembre 1942 e i sei mesi successivi. Di questi circa l’80% morì, quasi tutti appena arrivati o entro pochi giorni.
Le condizioni erano disumane.

Non c’erano baracche, erano bunker nel terreno di 13 per 7 metri coperte con frasche, con temperature ben oltre i 20 gradi sotto zero. Parte brutalità e parte totale disorganizzazione dell’esercito russo, che non si aspettava una massa di prigionieri così grande.

Cibo inesistente o quasi, condizioni igieniche spaventose, dissenteria, freddo, tifo petecchiale. I morti non venivano sepolti così la loro razione veniva spartita dai sopravvissuti nei bunker. Vi furono anche casi di cannibalismo.

Una piccola storia ignobile final

Mio zio arrivò nel campo il 23 febbraio del 1943 e morì il giorno dopo.
Arrivavano in carri bestiami, stipati all’inverosimile, senza cibo e acqua per giorni, dopo una marcia a piedi per raggiungere le linee ferroviarie durata giorni e nel freddo più intenso. Le chiamavano le marce del “Davai”, che in russo significa “avanti!”. Quando alla fine aprivano i vagoni dei treni erano più i morti dei vivi.
Il comando del campo pare fosse affidato a dei russi e rumeni coadiuvati da ispettori politici russi. (Subito dopo la guerra alcuni sopravvissuti , specie francesi, non dimenticarono quelle belve disumane e cercarono in tutti i modi di portarli davanti alla giustizia ma non se ne fece niente).

Oggi non rimane più nulla di quell’infame tragedia. Tutto è stato sepolto dalla polizia segreta, la Nkvd.
Restano solo i disegni fatti con il carboncino da qualche detenuto che mostra come il degrado umano non abbia, a volte, limiti.
Restano anche dei piccoli cippi commemorativi che ricordano, divisi per nazionalità, i morti del campo n.188.
Solo Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica Italiana fece, tra i grandi leader occidentali, il gesto di visitare Tambov e rendere omaggio a quelle vittime. La gente del posto se lo ricorda ancora…

LA SECONDA STORIA

Aprile e Maggio 1945 a Pola, in Istria, oggi Croazia.
L’esercito Italiano è stato schierato dal generale tedesco Ludwig Kuebler, comandante del 94 Corpo d’Armata tedesco, a difesa delle postazioni costiere istriane. (in realtà si fidava poco degli Italiani e li aveva posizionati nei posti meno cruciali alla difesa della pianura veneto friulana).

Mio zio Guido Godi, fratello di mio padre e di cui porto il secondo nome, era del 1924 e venne arruolato forzosamente dalla RSI pena “ripercussioni gravi anche sul capo famiglia”, come da manifesti affissi ovunque nelle campagne piacentine da cui veniva.
Uno dei nove figli di mio nonno, un contadino mezzadro, tutti poveri in canna, con mio padre scappato con i partigiani sulle colline e famiglia in odor di rappresaglia, poca scelta…
Venne destinato al XIII Gruppo di Artiglieria da Postazione Costiera, destinazione Pola.

Si arriva quindi ai combattimenti finali che porteranno alla liberazione dell’Italia del Nord e alla cessazione delle ostilità. Ovunque tranne che in Istria, dove i comandanti italiani resistono sperando di arrendersi agli Alleati che sono già a Trieste e non ai partigiani di Tito, di cui conoscono la brutalità verso gli Italiani.
Ma gli Alleati non fanno il passo, e alla fine l’esercito si dilegua al sole primaverile; tutti scappano come possono.

Guido viene fatto prigioniero dai partigiani slavi il 2 maggio mentre cercava di rientrare a Trieste. Lo portano verso l’interno, verso Borovnica, nella piana di Lubiana.
Lui è stremato, da giorni senza mangiare, debolissimo. Un suo compagno di marcia dirà, anni dopo, che ad un certo punto mio zio si era inginocchiato perché non riusciva più a camminare e un partigiano aveva estratto la pistola e gli aveva sparato in testa, lasciando il cadavere sul ciglio della strada.

Morire così, a guerra finita, sul ciglio di una strada…

Sono due storie, come detto all’inizio, ignobili.

Non c’è giustificazione di credo religioso, colore politico, etnia, interesse economico che possa giustificare queste brutalità efferate.

Mi auguro sempre che il freddo che mi viene nelle ossa e le lacrime che mi vengono al viso quando penso a questi zii che non ho mai visto e che sono morti in modo così orribile, svaniscano al sole di un futuro più umano, più attento ai valori di di eguaglianza tra diversi, più conscio della bellezza della diversità, più sereno e pacifico.
Ma non è ancora così.

* Oliviero G. Godi è laureato alla Columbia University di New York, ha insegnato al Politecnico di Milano, alla Naba di Milano, alla Bezalel Academy of Art ad Architecture di Gerusalemme e all’Istituto Internazione di architettura di Lugano. Ha ricevuto due medaglie dei Presidenti della Repubblica Italiana per meriti accademici e didattici.
È collaboratore di BergamoNews su problematiche architettoniche/urbanistiche (e non solo).

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