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L'intervista

Beppe Severgnini: “Il giornalismo? Sta male ma è essenziale per capire il mondo”

Il giornalista, che ha uno speciale legame con il territorio orobico, presenterà il volume sabato 3 agosto a Dorga (Castione della Presolana), inaugurando l'edizione 2019 di "Incontri d'estate".

Un libro, come del resto un articolo, deve essere utile a chi lo legge. Per questo in Italiani si rimane ho scritto della mia vita professionale ma contiene informazioni che servono anche a chi svolge una professione diversa dalla mia”. Così Beppe Severgnini illustra il suo ultimo lavoro, in cui attraverso le proprie esperienze racconta come è cambiato il mondo dal 1979 a oggi.

Il giornalista e scrittore, firma del Corriere della sera, presenterà il volume sabato 3 agosto a Dorga (Castione della Presolana), inaugurando l’edizione 2019 di “Incontri d’estate. L’appuntamento è alle 16.30 a villa Pace: lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Come è nato questo suo nuovo libro?

Vent’anni fa ho scritto “Italiani si diventa”, narrando della mia infanzia e della mia adolescenza. Il territorio bergamasco ha avuto e tuttóra ha un ruolo importante e per questo ho dedicato almeno un paio di capitoli alla Presolana, a Bratto e a Dorga, dove ho trascorso la mia prima gioventù. Inoltre ho raccontato come erano quei luoghi negli anni Sessanta e Settanta. “Italiani si rimane”, invece, è la storia del mio viaggio professionale che quest’anno compie quarant’anni, dal primo articolo nel ’79 fino ad oggi: i giornali, il Corriere della Sera, The Economist, il New York Times, la televisione, i libri… sempre considerando che una pubblicazione deve essere utile a chi legge. Quindi ho cercato di capire cosa della mia avventura professionale potesse servire a un lettore che svolge un lavoro totalmente diverso dal mio.

L’ho sempre pensato anch’io: il giornalismo deve avere una funzione civile

Anche secondo me è così: come quasi tutti i mestieri o ha una funzione sociale o non ne ha alcuna. Uno dei problemi è che alcuni giornalisti pensano di svolgere la propria professione come qualcuno che lavora sui social postando un video o uno status, credendo che sia sufficiente avere una testata dove scrivere queste cose per giustificare che ci siano persone che li guardino, li leggano, li ascoltino e comprino la loro pubblicazione. Ma non è così: per scrivere un post l’importante è farsi capire, mentre un giornalista deve essere più bravo, efficace e professionale. È lo stesso per uno scrittore: è vero che chiunque può pubblicare un libro, ma lui ha il dovere di redigerlo al meglio e renderlo interessante e utile per chi lo legge.

E come sta il giornalismo oggi?

Sta molto male perchè noi giornalisti non siamo riusciti a spiegare che il nostro lavoro ha un valore e merita di essere acquistato, di spendere soldi. Tant’è vero che il giornalismo televisivo, a fruizione gratuita, sta andando meglio rispetto al cartaceo e alle edizioni digitali a pagamento. Molti non capiscono il motivo per cui devono pagare perchè comunque possono trovare tutto gratuitamente, e se davvero fosse così avrebbero ragione. Ma un giornale o un buon sito svolgano un servizio utile e non possono scriverlo cinque amici al bar: ad esempio, per realizzare un prodotto come il Corriere della sera, il quotidiano per cui lavoro, sono necessari professionisti, cronisti, uffici di corrispondenza, esperienze e fonti di informazioni. Il problema è che i giornali faticano a far capire ai lettori che il nostro lavoro ha un valore che può essere anche economico: o riusciamo a far questo o il giornalismo rischia di lasciarci le penne.

Oggi tutti possono aprire un blog e diffondere messaggi: è positivo?

È giusto che ognuno possa farlo se si mantiene all’interno del codice penale, cioè se non diffama o insulta nessuno, ma è un prodotto diverso da quello giornalistico, che deve essere migliore. Il mio libro ha un costo e chi lo compra mostra di credere che quei soldi siano ben spesi e che possa ricavarci compagnia, riflessioni o consigli utili. Nel 2019 questa operazione è più difficile rispetto a vent’anni fa.

Come mai?

La gente ha meno tempo: esce, va a cena, fa l’aperitivo, lavora e porta i figli a scuola… Gli smartphone, WhatsApp e Instagram sono entrati nella quotidianità, Spotify, Netflix e i siti internet ci tengono occupati: in tutto questo i giornali stanno perdendo lo spazio fisico nella vita delle persone, è una sorta di espulsione, sono in difficoltà e dobbiamo essere bravissimi.

Può essere uno stimolo per reinventarsi?

Ci stiamo provando e io sono convinto che i giornalisti bravi siano consapevoli di questa fase difficilissima. Io cerco di fare quello che posso: sul Corriere, con i miei libri, in tv. Qualcuno mi dice che mi guarda spesso a “Otto e mezzo” perchè ha l’impressone che ascoltandomi riesce a capire meglio le cose ed è un grande complimento. Quel telespettatore segue il programma, la trasmissione aumenta gli ascolti e ha più pubblicità: non la paga di tasca propria ma attraverso gli spot, ed è un modo per riconoscere la professionalità del giornalista. Ogni lavoro richiede competenze diverse, anche se molti giornalisti pensano che scrivere qualche frase o riprendere un’agenzia sia sufficiente ma oggi non è più così.

Beppe Severgnini - foto di Daniela Zedda

Venendo alla sua esperienza, come è evoluto il suo stile nel tempo?

Non è cambiato molto. Credo ancora che l’ironia sia una grande arma e che la semplicità, la chiarezza e l’empatia con il lettore, ascoltatore e telespettatore siano importantissime. Sicuramente sono meno giovane: mi viene il mal di schiena solamente a pensare tutto quello che facevo in giro per la Russia o la Cina, però ancora oggi compio lunghissimi viaggi in tutto il mondo. Continuo a fare il mio mestiere, scrivo spesso del mondo ed è fondamentale andarci: non ne posso più dei giornalisti che commentano il mondo da cui mancano da anni. C’è chi scrive dell’America senza esserci mai andato e magari non parla nemmeno inglese.

Voltando pagina: ci racconti del suo legame con Bergamo…

Sono di Crema che, come Bergamo, per tre secoli e mezzo ha fatto parte della Repubblica di Venezia, quindi abbiamo molte cose in comune: dalla lingua – capisco qualsiasi bergamasco anche quando parla dialetto perchè è simile al mio – alle tradizioni gastronomiche e culturali. Dai miei nonni, che erano agricoltori, in campagna arrivavano i bergamini, i mungitori, che si chiamavano così perchè venivano da Bergamo. Mio figlio ha aperto un locale a Seregnano, l’ultimo Comune cremonese prima di Mozzanica e la clientela è per metà bergamasca.

Cosa le piace del nostro territorio?

La prima volta che sono stato a Dorga avevo sei mesi e ora ho 62 anni: ho trascorso lì buona parte della mia vita. Inoltre ogni volta che vengo al Donizetti o al Creberg il pubblico mi vuole bene e mi sento a casa. Aggiungo che c’è una squadra di calcio che ha dei colori molto belli, il nero e l’azzurro, e approvo: sono interista ma ogni tanto sono venuto a vedere l’Atalanta. Il mio posto al mare è la Gallura, mentre per la montagna il Bergamasco e insieme a Crema sono i luoghi a cui sono particolarmente legato.

Per concludere, quali sono i suoi progetti per il futuro?

Scrivere e dire cose utili per portare un po’ di serenità e chiarezza in questi tempi in cui la politica cerca di raccontarci cose che non sono vere. Quindi tentare di aiutare le persone a decidere con la propria testa invece di farsi imbrogliare.

 

Foto copertina di Elena Visinoni

Foto interna al testo di Daniela Zedda

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