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L'intervento

Borsellino, Di Pietro: “Io a Bergamo fui protetto 24 ore su 24, perché lui no?”

L’ex pm invita a riflettere sulle difficoltà con cui ha dovuto fare i conti il magistrato assassinato da Cosa nostra il 19 luglio 1992

Giustamente adesso tutti stanno esaltando Borsellino, ma vi posso assicurare che lui, come Falcone e come me, ha avuto solo bastoni tra le ruote quando era in attività”. Così l’ex pm Antonio Di Pietro invita a riflettere sulle difficoltà con cui ha dovuto fare i conti l’ex magistrato che venne assassinato da Cosa nostra il 19 luglio 1992.

Le sue parole, rilasciate ai microfoni di Radio Cusano Campus, arrivano come un monito nel giorno in cui ricorre l’anniversario della strage di via D’Amelio in cui Paolo Borsellino perse la vita insieme ai cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Alcuni audio desecretati che sono circolati in questi giorni su giornali e tv mostrano come questo grande servitore dello Stato avesse più volte evidenziato i rischi che stava correndo a fronte di una ridotta protezione. In modo particolare aveva rimarcato di avere la scorta solo al mattino, per mancanza di autisti giudiziari, con la “libertà di essere ucciso la sera”, oltre a lamentare la mancanza di segretari e dattilografi di cui ci sarebbe stato bisogno tutto il giorno.

Comprendendo le problematiche che aveva denunciato Borsellino, Di Pietro ricorda: “Ho avuto alcuni incontri di lavoro con lui per quell’insieme d’inchieste sul sistema politica-mafia-affari. Ho avuto la percezione plastica che personaggi scomodi non solo venivano lasciati da parte, ma tutto sommato allo Stato interessava poco di loro“.

“Come Borsellino – spiega – anche io ho vissuto, non solo da magistrato, questa mancanza di mezzi, risorse e strutture. Quando si comincia a dire che ‘i processi si devono fare subito’, nessuno riflette sul fatto che tra i processi che si devono fare e i magistrati che devono farli ci sono mediamente sui tavoli degli stessi magistrati tra i mille e millecinquecento fascicoli. Come puoi farli? Se lavori bene su uno, tutti gli altri rimangono indietro. Se li devi fare tutti velocemente fai come il notaio: metti una firma e via. Se vuoi farli bene, serve tempo e soprattutto devi dare risorse e strumenti a chi deve fare il suo lavoro. Questo è il primo problema che esiste dai tempi dei primi computer di cui parlava Borsellino”.

Quindi, l’ex pm di Mani Pulite invita a riflettere: “Tutti giustamente adesso stiamo esaltando Borsellino, ma vi posso assicurare che lui, come Falcone e come me, ha avuto solo bastoni tra le ruote quando era in attività, poi ora ci fanno i film per mostrare quanto era bravo. Quando c’è scappato il morto fanno il bel funerale di Stato. Ricordo un fatto concreto riguardo a Borsellino e l’ho anche detto nelle sedi opportune. Quando morì Falcone tutti immaginavano e sapevano che sarebbe toccato a Borsellino. Lo diceva lui stesso. Ci furono anche relazioni formali dei Ros. Io all’epoca stavo a Bergamo e mi fu dedicata molta attenzione. La mia famiglia fu trasferita all’estero, avevo la mia casa controllata 24 ore su 24 da carabinieri e telecamere di sorveglianza. A me non si poteva avvicinare nessuno, mi hanno protetto. Per Borsellino perché non l’hanno fatto?“.

Come Borsellino, anche Di Pietro era consapevole dei rischi che stavano correndo: “Sapevamo cosa ci sarebbe potuto succedere, ci arrivò l’informativa su quello che stavano preparando. È una cosa che non ha senso e non ha logica, se non quella di pensare: speriamo che non succeda o, magari, speriamo che succeda. Il giorno del funerale di Falcone, io mi recai da Borsellino e lui mi disse: ‘Antò, dobbiamo fare presto perché manca poco’”.

Infine, parlando dell’agenda rossa del magistrato, conclude: “Di aspetti specifici ho parlato già coi servizi di sicurezza, nelle sedi giudiziarie opportune. Quel che posso dire è che, a mio avviso, quel che è successo lì sta in quel rapporto mafia-politica che aveva coinvolto tutta l’Italia. A Milano hanno cercato di fermare chi indagava con la delegittimazione, a Palermo con l’omicidio“.

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