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DI NOTTE, LA REALTA’ DELL’ INCUBO

Sono le 3.36 del 14 settembre 2016, mi alzo, sono tutta sudata, il mio respiro è affannato, ancora una volta l’Incubo mi ha raggiunto, e, come sempre, non mi risparmiato. Vado in cucina dove la mamma, come tutte le sere, ha preparato il mio bicchiere azzurro oceano pieno fino all’orlo d’acqua, bevo fino all’ultima goccia d’acqua ma a quel punto il sonno mi ha completamente abbandonato. Allora decido di prendere la mia felpa blu turchese e di uscire di casa, magari respirare a pieni polmoni l’aria frizzante del mattino mi farà sentire meglio, ma una volta arrivata in cima alla via Garibaldi di Amatrice al solo vedere le macerie della casa di Antonio, il vecchio proprietario dell’edicola all’angolo di via Giuseppe Mazzini, mi sento svenire, sento che la terra sotto i miei piedi inizia a sprofondare giù, sempre più giù, e da un certo punto di vista mi piacerebbe sparire, andarmene e scappare una volta per tutte dall’Incubo che non mi dà tregua.
Capisco che uscire di casa per fare una passeggiata è stata una pessima idea perché ora dai miei occhi scendono fiumi di lacrime che sembrano non finire mai, lacrime che non possono niente contro l’Incubo, sono solo lacrime inutili che non possono cambiare questa triste e crudele realtà. Decido che è meglio tornare a casa, domani è il mio primo giorno di liceo ma io a differenza di altri ragazzi d’Italia oltre alla paura di non essere accettata ho anche paura di essere etichettata come “la terremotata”.
Appena rientro a casa vedo la mamma avvicinarsi tutta preoccupata con la sua sedia a rotelle ed io la rassicuro che va tutto bene, anche se in fondo sappiamo entrambe che non è così: infatti l’incubo ha distrutto non solo la nostra casa, ma anche le nostre vite perché non possiamo più tornare alla nostra vecchia quotidianità; perché le gambe a mia mamma non potrà ridargliele nessuno, così come tutti i bei ricordi della vita “di prima”.
Accompagno la mamma in camera sua e mi addormento accanto a lei, pensando che comunque questa nuova casetta di legno non è male, ma non è nulla in confronto alla mia amata casa che ora è un insignificante cumulo di sassi.
Alle 6.30 suona la sveglia, è arrivato il grande giorno, speriamo che vada tutto bene. Mi lavo, mi vesto, faccio colazione e aiuto la mamma a sistemare la tavola, poi la saluto dolcemente e mi incammino lentamente alla fermata del pullman cercando di evitare i cumuli di pietre disseminati per le strade.
Arrivata a scuola, carica d’ansia, ho subito cercato la mia classe e sono andata a sedermi in un banco che non desse molto nell’occhio così da trascorrere le ore di lezione in disparte, senza dover per forza creare legami con gli altri.

Il primo giorno di scuola tutti mi hanno subito etichettata come “l’asociale” che a parer mio è molto meglio della “terremotata”. Questo nomignolo è rimasto per circa tre settimane perché dalla quarta settimana la mia prof. di lettere ha avuto la brillante idea di trattare come tema d’attualità il terremoto, il mio Incubo. Non appena lo sento nominare inizio a tramare come una foglia, a quel punto non ce la facevo più, mi veniva da vomitare, mi alzo traballante e scappo in bagno, al riparo dagli sguardi dei miei compagni. Non mi reggo più in piedi, mi accovaccio a terra con la testa fra le gambe.

Erano le 3.36 del 24 agosto 2015, mi sveglio di soprassalto, mi metto a sedere sul letto, tutto in camera mia si muove, il letto salta da una parte all’altra. In quel mentre la mamma entra in camera e dice: “Scappa! C’è il terremoto!”. Senza pensarci due volte corro verso l’uscita con il cuore che batte all’impazzata, la mamma è appena dietro di me, mentre sto uscendo vedo pezzi di soffitto crollare, mi giro per controllare se la mamma c’è ancora, ma nel momento in cui mi giro vedo una grossa trave del tetto caderle addosso, è un Incubo penso, ora mi sveglierò nel mio letto, ma non è così. La paura mi travolge, tutto intorno a me sta crollando, le gambe di mia mamma sono schiacciate e io sono paralizzata, non so cosa fare. Schivo un po’ di macerie che stanno cadendo, mi avvicino alla mamma, piangendo la rassicuro e provo a liberarla, ma è impossibile: le macerie che la opprimono sono troppo pesanti, mi accuccio vicino alla mamma, chiudo gli occhi nel tentativo di sparire da questo Incubo che mi fa tremare; l’ultima cosa che vedo è una parte del tetto che mi cade addosso, dopo più niente. Quando mi risveglio sono in un letto d’ospedale con un dolore atroce alla testa, nel letto accanto al mio c’è la mamma che ancora sta dormendo, io provo ad alzarmi ma non ci riesco, non riesco a fare alcun movimento, ma ricordo, ricordo tutto quello che è successo di notte, quello che l’Incubo mi ha fatto patire e sono sicura che ora non mi abbandonerà più, mai più.

Quando entrambe ci siamo riprese ci hanno portato nella nostra casetta di legno, ma l’Incubo ancora ci perseguita.

Un rumore insistente mi fa spaventare, qualcuno sta bussando alla porta: è la mamma. Torno a casa e in quella scuola decido di non metterci mai più piede.

Passo due settimane fantastiche a casa con la mamma dopo quel 24 agosto, ma il 26 ottobre l’Incubo torna ancora. Tutto trema, il tavolo con la buonissima amatriciana di mia mamma si ribalta, scappiamo fuori. Siamo stanche di questa vita, vogliamo andarcene da questo posto che tanto ci fa soffrire, ma allo stesso tempo non vogliamo abbandonare qui i nostri ricordi di felicità, anche il desiderio di lasciarsi alle spalle l’Incubo prevale.

Il passato non è più tornato, ma l’Incubo sì, insieme alla paura. E ad Amatrice, per ora, non ho più avuto il coraggio di tornare.

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