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LA DISCESA

Mi svegliai di soprassalto, sudato, tremante… il solito incubo, scendevo in una buca senza fondo, ero solo: né amici né famiglia…
Mi alzai, incerto sulle gambe e guardai l’ora: le quattro e mezzo; fuori dalla finestra era ancora buio.
Sapevo che non sarei riuscito a riaddormentarmi, mi sollevai a fatica, mi sciacquai la faccia e ripresi un po’ di colore; mi vestii e uscii di casa. Tanto valeva fare due passi, adoravo camminare per la città addormentata, mi rilassava ed era proprio quello di cui avevo bisogno: avevo ancora le mani tremanti.
Chiusi la porta e cercai di non pensare a quell’incubo, mi sforzai di pensare che non poteva essere vero.
Ragionai invece su quello che avrei dovuto fare oggi: due lanci con sette nuove reclute, una normale giornata per un istruttore di paracadutismo.
Probabilmente due dei nuovi arrivati non sarebbero saltati… alla fin fine era il loro primo lancio, e ci vuole una buona dose di coraggio per saltare da 4000 m di altezza.
Io invece, al mio primo lancio, dieci anni prima, non ebbi esitazioni e fu una sensazione bellissima: sentire il vento investire la tuta aderente, il peso rassicurante del paracadute sulla schiena e il meraviglioso senso di vuoto che poche persone sanno apprezzare.
Girai l’angolo e vidi un cane attraversare la strada, solitario, col pelo lungo e scuro.
Mi fermai, paralizzato dall’orrore, improvvisamente gli arti del mio corpo non rispondevano più ai miei comandi, entrai in una specie di trance da cui uscii dopo qualche minuto, ansimante, a qualche isolato di distanza, stramazzato a terra.
Quel cane…
L’avevo già visto, in quell’incubo persistente… ormai avevo la certezza che non mi avrebbe più abbandonato.
Appena ripresi fiato corsi a casa, cancellai tutti gli impegni che avevo programmato, con grande disappunto da parte del responsabile, sia perché l’avevo svegliato, sia per il poco preavviso che gli avevo dato.
Andai in un Market aperto e comprai uno spray al peperoncino, snack, acqua e una barretta al cioccolato fondente.
Tornato a casa presi il mio zaino da escursione e lo riempii con dei soldi, la torcia frontale, una corda da arrampicata e gli acquisti del Market.
Uscii di casa e chiusi tutte e tre le serrature della porta, abbandonai il cellulare in camera per non lasciare nessuna traccia; pensai che stessi impazzendo, probabilmente era così.
Guardai la strada, respirai a fondo l’aria mattutina e osservai le prime persone che uscivano dalle case, fresche e riposate. In confronto dovevo apparire molto strano, pallido, con gli occhi stanchi e spiritati, i capelli biondi spettinati, completo di zaino da montagna e scarponi, nel mezzo di una metropoli americana, confinante con un deserto.
Sinceramente non me ne importava molto, dove dovevo andare faceva piuttosto freddo.
Mi avviai verso il centro, passando per le vie meno frequentate, anche se a volte era necessario attraversare strade affollate, ma solo per brevi tratti, e dopo qualche chilometro arrivai alla mia meta: un vecchio tunnel della metropolitana, vicino alla prima fermata della linea che portava in centro.
Entrarci non era un problema, il difficile era riuscire a imboccarlo senza né essere visto né finire tranciato da un treno.
Aspettai qualche minuto, la vettura arrivò, si fermò, prelevò i pochi passeggeri che aspettavano sulla banchina e se ne andò.
Entrai nel tunnel buio e accesi la torcia frontale, ispezionai le pareti e dopo un paio di minuti trovai quello che cercavo: un’apertura nella parete di cemento, in discesa.
Iniziai a scendere e dopo qualche metro il cemento lasciò posto alla roccia; la pendenza aumentò, la discesa divenne una scalata libera, per fortuna piena di appoggi.
Mi sentivo nello stesso stato di trance di qualche ora prima, solo che adesso udivo una moltitudine di vocine nella testa, non capivo cosa mi stessero dicendo. Non sapevo quello che stavo facendo. Dopo quasi due ore di discesa ero esausto ma non mi fermai.
Vidi un’insenatura nella stretta gola che stavo percorrendo, mi infilai e mi sedetti chino, con le gambe penzoloni, mi rilassai per un paio di minuti, poi ricominciai a scendere.
Arrivai a terra sfinito, tutti i muscoli indolenziti e tremanti dalla fatica, le mani e le gambe scorticate dalla pietra dura e scheggiata; puntai la torcia verso l’alto e la luce si perse nell’oscurità della lunga gola che avevo appena percorso.
Bevvi un lungo sorso d’acqua e mi feci sfuggire una risata isterica, di quelle che scattano quando si è stanchi, stressati e arrabbiati con sé stessi, una lunga risata rivolta a chissà chi, forse pensando a quello che avevo appena fatto, forse a quello che avrei dovuto fare.
Mi guardai intorno, quasi rendendomi conto solo in quel momento di dove mi trovavo, la “trance” che mi aveva guidato fino a quel luogo era sparita, lasciandomi completamente solo, sotto una città distante forse chilometri.
In quel momento una sensazione si insinuò nella mia testa e iniziai a vedere cose che non c’erano; luci intermittenti illuminavano le pareti, dal tunnel spirava un vento caldo che accompagnava un lieve sibilo come quello di una sirena, poi udii un rumore secco, uno sparo.
Caddi in ginocchio e svenni.

“È stato finalmente fermato lo squilibrato che ha tentato di calarsi senza nessuna precauzione dalla riproduzione in scala ridotta della Tour Eiffel situata nel centro di Las Vegas. L’impresa è già diventato virale nel web; i video dell’impresa hanno fatto il giro del mondo. L’uomo sarebbe salito dall’ascensore per la manutenzione alle prime ore del mattino e dalla cima avrebbe iniziato la discesa. Inutili sono stati i tentativi di richiamare la sua attenzione. Tornato a terra è scoppiato in una risata acuta ed inquietante, motivo che ha fatto arretrare gli agenti pronti a soccorrerlo e che ne ha indotto uno a sedarlo, con una pistola antisommossa. Ora si trova in un centro psichiatrico, sotto la supervisione di alcuni psicologi, che tenteranno di far luce sull’accaduto e sul livello di sanità mentale dell’uomo…”

Questo è quello che raccontarono al telegiornale, quella sera; questo è quello che sentirono milioni di persone in tutto il mondo, ma io sapevo quello che era successo veramente, almeno lo credevo.
Mi risvegliai in una stanza che non conoscevo, calda e soffocante, non ebbi neanche il tempo di alzarmi che subito entrarono tre uomini vestiti con un camice bianco, si presentarono con un misto tra timore e impazienza, mi fecero vedere la registrazione del TG del giorno prima, oltre che alcuni video della mia “impresa”. Mi chiesero se riuscissi a reggermi in piedi e a camminare, ci provai, ma dopo qualche passo dovettero sorreggermi.
Mi fecero alcuni test e fui sottoposto a ripetuti colloqui. I ricordi riaffiorarono, a sprazzi, poi sempre più completi.
Parlai di quella gelida notte nel bosco, della fuga precipitosa da quel branco di randagi che aveva distrutto il mio rifugio.
Raccontai loro del capobranco, l’avevo visto sbranare davanti ai miei occhi mio fratello; quel cane era lo stesso che vedevo nei miei incubi, che mi tormentava da anni.
Mi ero salvato solo grazie ad un crepaccio, nel quale ero precipitato, e dove i cani non avevano osato saltare. A notte fonda se ne andarono. Aggrappandomi ad alcune radici riuscii a risalire e, malconcio e ferito, tornai a casa mia. Stravolto e sotto shock, non ricordavo più nulla. Da quel giorno mi ammalai di depressione.

Dopo mesi di terapia, mi fu affidato un cane, molto simile alla descrizione che ne avevo dato. I medici mi aiutarono ad elaborare il trauma e a superare il terrore per l’animale.
Prima ero esitante ed impaurito, poi giorno dopo giorno mi abituai alla sua presenza e facemmo amicizia.
Qualche tempo dopo i medici mi dissero che potevo essere dimesso e portare il cane a casa con me.
Da allora la depressione non fece che diminuire, lasciandomi solo una cicatrice, come una vecchia ferita che man mano svanisce, un alone sempre più vago, fino a diventare quasi trasparente.

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