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DIARIO DI MORTE PAURA E DISTRUZIONE

Sono Abasi, ho 28 anni, è vengono da uno dei Paesi più poveri del Mondo, la Repubblica Democratica del Congo. Lavoravo come contadino, mi occupavo di togliere le piante infestanti dalle coltivazioni di riso. Ero costretto a stare in piedi, con la schiena abbassata e l’acqua che mi arrivava alle ginocchia, sotto il sole o la pioggia. A sera ero stremato, ma nemmeno quello mi bastava per portare avanti la mia famiglia. Decisi allora di partire, di emigrare, non sapevo dove, avevo sentito alcuni miei amici che si trovavano molto bene in Germania, ma neanche l’Italia era male.
Mi unii a un gruppo di ragazzi che volevano arrivare in Libia, viaggiavamo per lo più di nascosto, di notte, salivamo sui camion e ci facevamo portare per alcuni chilometri. Era un incubo. Ci stringevamo in posti angusti, rimanevamo rannicchiati per ore: ho visto un ragazzo infilarsi nell’intercapedine tra la cabina e l’autocarro, e rimanere senz’aria e non uscirne più vivo. Per notti ho sognato la sua faccia, riprovavo senso di angoscia e di paura nel rivedere la sua faccia entrare sorridendo in quella che si sarebbe trasformata nella sua tomba. Da quel momento in poi non sono più salito sono un camion, ho fatto gli ultimi chilometri a piedi prima di raggiungere il deserto del Sahara.
Mi aggregai ad una carovana e partimmo di notte, quando faceva meno caldo. Nei primi giorni andò tutto bene, l’acqua era sufficiente e il cibo abbondante, cominciavo ad affezionarmi ai miei compagni, che mi diventarono amici. Un mattino, non so come, mi svegliai di soprassalto, mi alzai di colpo e mi incamminai meccanicamente verso le altre tende: mentre entravo la paura prese il sopravvento, mi si attorcigliò lo stomaco, mi fermai per prendere fiato, presi coraggio ed entrai, c’era sangue dappertutto, tutti i miei amici morti, la testa a penzoloni, il corpo squarciato. Mi sentii le guance bagnate, erano lacrime che sgorgavano dagli occhi. Compresi che erano stati i predoni, avevano rubato tutte le scorte d’acqua e di cibo. Non ci rimanevano che i pochi sorsi d’acqua delle borracce e pochissimo cibo, ma avevamo ancora diversi giorni di cammino davanti a noi. In quel momento una strana sensazione mi attanagliò le viscere, andava serpeggiando in tutto il mio corpo, mi si formò un groppo in gola e un misto di disperazione e paura prese il sopravvento. Non potevamo fermarci, dovevamo andare avanti, quindi avremmo razionato ciò che ci restava. Di quei giorni non ricordo quasi niente, solo una sensazione di caldo, la gola secca e gli occhi che lacrimavano. Intorno a me vedevo sagome nere cadere a terra, alzare le mani al cielo, forse per chiedere aiuto, e non rialzarsi più. Uno di loro mentre cadeva a terra, aveva un’espressione calma e rilassata, quasi serena. Questo è stato il mio ultimo ricordo di quel viaggio, dopo solamente buio.
MI risvegliai sdraiato per terra, davanti a me un ragazzo con una pezza bagnata in mano, sembrava che parlasse, ma non riuscivo a mettere a fuoco l’immagine. Dopo un po’ mi ripresi e mi misi a sedere. Il ragazzo di fronte a me faceva parte della mia carovana, mi spiegò che ero svenuto a qualche chilometro dall’ingresso in Libia. Lui mi aveva trascinato su un camion che aveva viaggiato per qualche giorno ed eravamo arrivati a Tripoli. Dunque ero rimasto incosciente per un paio di giorni, poi ero salito su un camion: tutto ad un tratto provai un senso di tristezza assoluta, avevo con me solo il mio zaino con dentro qualche vestito sbrindellato e qualche spicciolo avanzato dal viaggio, cosa potevo sperare?
Come se non bastasse ero anche in un Paese in guerra e ovunque mi girassi vedevo solo morte, paura, distruzione. In quel momento decisi che non sarei rimasto lì, decisi che me ne sarei andato da quell’incubo, una determinazione che generò in me una fiammella di coraggio che mi rincuorò: improvvisamente mi si balenò davanti l’immagine di un giorno in cui stavo andando al lavoro, avevo visto un bambino giocare a pallone, ad un tratto aveva corso verso un punto, s’era inginocchiato. Avvicinatomi, avevo visto che teneva in mano una farfalla bellissima, il bambino mi guardava felice, e soltanto due secondi dopo, due non di più, la farfalla era esplosa e il bambino con lei.
Passai alcuni mesi in Libia, facendo lavori saltuari ma che mi permisero di racimolare i soldi necessari a partire. Sarei partito di notte, su uno di quei barconi di contrabbando gestiti dagli scafisti. Eravamo in una quindicina, tra cui una decina di donne. Finalmente partimmo. Dopo qualche ora ci accorgemmo che nella barca cominciava ad entrare acqua, lo scafista che era con noi si accorse del problema, si avvicinò ad una donna, la sospingeva poco a poco fino a farla scivolare in acqua. Lei tentava coraggiosamente di rimanere attaccata al barcone, le tremava il braccio, vicinissimo al mio, mi costrinsi a non girarmi, a non guardare, ma non ce la feci e quando mi voltai verso di lei vidi per un secondo la testa, bastò quell’attimo per vedere il suo volto disperato che implorava pietà. Dopo poco il mare l’aveva già inghiottita. Senza pietà. Il suo volto mi rimase impresso per tutta la notte, mi sentivo in colpa per non averla aiutata ma dovevo farmi forza per non sembrare debole, altrimenti sarei finito anch’io sul fondo del mare. Durante quella notte molti altri finirono in mare, inghiottiti tra le onde, ad intervalli regolari qualcuno si dibatteva per qualche secondo, poi nulla, solo il silenzio delle onde.
Il mattino dopo eravamo approdati: signori vestiti di bianco ci presero, ci esaminarono, ci imbarcarono su un’altra nave, questa volta più grande. Non ricordo molto del tragitto, era un continuo dormiveglia, sgranocchiavo quel poco che avevo racimolato e poi ritornavo a dormire, assalito dagli incubi e dal rimorso. Arrivammo in un grande porto, pieno di navi, altri signori, altri controlli, ora dei passaporti, ed io non l’avevo. Così fui costretto a sgattaiolare via per allontanarmi dalla città, a notte fonda: dietro ogni vicolo buio vedevo la donna buttata in mare dirmi: “Perché non mi hai salvato? Cosa ti ho fatto di male?”. Se chiudevo gli occhi era peggio, il buio faceva riemergere ricordi dolorosi, il ragazzo che sorridendo andava incontro alla morte, il mio amico che implorava un sorso d’acqua, gli uomini e le donne che chiedevano aiuto mentre il mare li inghiottiva. Poi un angelo: una mano mi prese per la spalla, mi voltai di colpo, era una ragazza, mi offrì un tetto dove dormire e del cibo. Faceva parte di un’associazione che accoglieva i migranti. Grazie a lei mi misi in regola e trovai un lavoro, intanto studiavo già pensando al futuro migliore dei miei figli . Ancora oggi, mi sveglio urlando, davanti a me le facce dei miei amici che dopo qualche secondo sfumano, ed io torno a dormire.
Da allora sono condannato a vivere una vita segnata da paura, ho avuto paura, ho visto la paura, sono oggetto di paura, la paura della paura: quando avrà fine questo stupido incubo?

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