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Bergamo segreta

Quando in Città Alta c’era il “Fopù”: la storia della Fara

Nuova puntata della rubrica domenicale di BGY che oggi va alla scoperta di uno dei punti della città scomparsi

Quando si parla del Prato della Fara per un bergamasco, la prima cosa che viene in mente sono le partite a calcio all’ombra di Sant’Agostino oppure per chi ha qualche anno in più la Fara può ricordare le discese con la slitta lungo il pendio che scende da via Porta Dipinta.

Ricordi gioiosi, divertenti, che richiamano alla mente un paesaggio meraviglioso, eppure sino ad alcune decine di anni fa il Prato della Fara non era un luogo affascinante, quanto uno dei più temuti della città poiché lì sorgeva il “Fopù”.

Il “Foppone” (traduzione italiana del termine bergamasco) era una scoscesa valletta che a partire da via Porta Dipinta scendeva sin al centro città, isolando  così il convento di Sant’Agostino e obbligando così i cittadini a transitare attraverso la porta detta “Sub Foppis”, unico accesso disponibile per poter raggiungere il borgo.

A cambiare la fisionomia del Foppone e renderlo protagonista fu sicuramente la costruzione delle Mura Veneziane, che tagliarono a metà la valletta creando una profonda spaccatura nel terreno.

L’abisso bergamasco colpì particolarmente i primi fotografi ed alcuni artisti che, nel perfetto gusto romantico, ritraevano la pittoresca area con sullo sfondo quella che era all’epoca la Caserma Mille, un paesaggio senza mozzafiato che dietro di sé nascondeva però un inquietante retroscena: “C’era uno sprofondo fantastico.  I carri vi portavano pazientemente i detriti della lenta distruzione di Città Alta; le carriole vi rovesciavano i rifiuti delle soffitte e delle cantine; le buone massaie, appena sceso il crepuscolo, vi buttavano furtivamente cocci di stoviglie e arnesi fuori uso. Era uno sprofondo enorme; lungo e largo – testimonia una cronaca degli Anni Trenta -. E non si colmava, lo si vedeva sempre vasto come una voragine, pauroso. Cambiava tinta su una zona o sull’altra della sua tonda parete: rosso sangue per i frammenti di cotto; giallo ambra per i terricci di campo; bianco lacca per calcinaccio recente”.

Per quanto in apparenza il burrone pareva non riempirsi mai, proprio negli Anni Trenta la situazione cambiò quando i detriti provenienti dalla demolizione degli edifici inseriti piano di risanamento urbano progettato Luigi Angelini iniziarono progressivamente a riempire la vallata.

Con l’inizio degli Anni Cinquanta la voragine della Fara non esisteva ormai più, pronto a lasciare spazio a un campo da calcio, tuttavia il ricordo del “Fopù” rimarrà sempre vivo nella memoria dei bergamaschi.

 

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