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L'intervista

I 1700 trapianti del dottor Colledan: “Quel bimbo morente e il rientro di corsa dal Belgio” video

Il medico del Papa Giovanni si racconta: "Noi chirurghi una razza da proteggere, il sistema va rivisto"

Secondo un report del Centro Nazionale Trapianti, all’ospedale Papa Giovanni lo scorso anno sono stati effettuati 174 trapianti, 9 in più rispetto al 2017. Un risultato che vale all’ospedale bergamasco il settimo posto a livello nazionale. Risultati importanti sono stati raggiunti anche sul fronte delle donazioni, sotto la guida del Coordinamento prelievo e trapianto d’organo affidato al dottor Mariangelo Cossolini, che Bergamonews ha intervistato pochi giorni prima di andare in pensione (leggi qui).

In prima linea per l’ottenimento di questi risultati c’è il dottor Michele Colledan. Dal 2018 direttore del Dipartimento funzionale Insufficienza d’organo e trapianti, è stato il primo a eseguire con successo la tecnica di divisione del fegato di un donatore, per trapiantare due pazienti adulti. Per la prima volta in Italia ha anche eseguito il trapianto polmonare, quello intestinale e quello multiviscerale addominale in bambini di età inferiore ai 10 anni e trapianti combinati di polmoni e fegato in pazienti adulti.

Dottore, innanzitutto complimenti.

Grazie, ma più che a me bisogna farli a tutto l’ospedale. È difficile trovare realtà nelle quali sia possibile realizzare altrettanto. In questo senso Bergamo si conferma eccellenza a livello nazionale e regionale. Ma questo già lo sapevamo.

Di quanti trapianti si è occupato in carriera?

Dal 1997 ad oggi all’incirca millesettecento.

Anche da piccolo sognava di fare il chirurgo?

Sì, ho sempre voluto fare questo mestiere. Anche se durante gli anni di specializzazione confesso di avere attraversato un periodo in cui mi ero pentito della scelta, perché non vedevo molte prospettive. Dopo la specializzazione ero andato a lavorare per un anno come assistente in Francia, a Reims, località famosa per la produzione di Champagne. Dopodiché nel 1985 sono tornato in Italia perché si era liberato un posto al centro trapianto di fegato di Milano. Non avevo bene idea di cosa fosse, ma è stato il colpo di fortuna più grande della mia vita. L’attività si stava sviluppando molto in quegli anni.

Dopo quell’esperienza è arrivato a Bergamo.

Grazie al dottor Bruno Gridelli. Era il 1997 quando mi ha proposto di seguirlo a Bergamo per avviare l’attività. Poi nel 2003 lui è andato a lavorare a Palermo e io ho preso il suo posto come direttore del programma di trapianti.

Quanto e come è cambiato il modo di lavorare negli anni?

Direi che l’innovazione più interessante dell’ultimo decennio nell’ambito dei trapianti di organo solidi è quella dalle metodiche di perfusione extracorporea degli organi. In pratica, permette di attaccare gli organi su banco attraverso delle cannule che vengono inserite nei vasi a un sistema di pompe, scambiatori di calore e ossigenatori che li perfonde in modo continuo. Ciò consente da un lato di valutare su banco la qualità dell’organo, simulando, in un certo senso, le condizioni in cui l’organo si trova normalmente a lavorare nel corpo umano, e dall’altro di migliorarne la qualità, utilizzando così in modo sicuro organi che altrimenti potrebbero essere rifiutati, aumentando la possibilità di trapianto nei pazienti. Infine, molto importante, questa tecnologia permette di guadagnare tempo. Il che significa poter organizzare meglio il lavoro, effettuare pre-trattamenti programmati nel ricevente, come di pre-trattare l’organo stesso. A livello logistico è un vantaggio non indifferente.

Ci fa un esempio?

A dicembre abbiamo effettuato un trapianto combinato fegato-polmoni a una ragazzina di Genova. Normalmente si trapiantano prima i polmoni e poi il fegato, ma nel caso specifico avevamo la necessità di iniziare dal fegato, che era più malato. Abbiamo quindi messo i polmoni nella macchina che li perfonde rovesciando lo schema usuale. Avevamo già eseguito diversi trapianti di questo tipo su pazienti adulti, ma quello è stato il primo in un paziente pediatrico.

Sempre in tema di innovazione e tecnologia, anche in sala operatoria si iniziano a utilizzare i robot. Cosa ne pensa?

Purtroppo a Bergamo non abbiamo ancora questa possibilità, ma sono una bella cosa, perché rendono semplici cose più difficili, soprattutto in termini di accessi e movimenti delicati da effettuare manualmente. Detto ciò, i robot non fanno guarire più pazienti. Piuttosto, aumentano il numero di chirurghi in grado di effettuare una manovra complessa in modo mini invasivo.

Prima o poi sostituiranno i chirurghi in carne ed ossa?

Bella domanda. Tutto è possibile, ma a oggi i robot non sostituiscono nessuno perché sono comandati dall’uomo con dei joystick, come quelli che si usano per i videogiochi. Chi sta sostituendo i chirurghi sono le chirurghe.

Ci racconti.

Tra gli specializzandi da formare la quota femminile è di gran lunga la più rappresentata. Il rapporto ormai è di tre a uno.

A cosa è dovuto secondo lei?

Credo che i maschi si dirigano verso altri tipi di università e specializzazioni. Personalmente, trovo bello che un ambiente come quello chirurgico, storicamente fallocratico, smetta di esserlo. Le nuove generazioni che vedo lavorare, femmine e maschi, sono molto in gamba, estremamente determinate. Credo sia effetto del numero chiuso e delle rigide selezioni per l’accesso alla facoltà di medicina ed alle scuole di specializzazione.

Ma allora non è vero che i giovani non fanno più questo lavoro.

Il nostro è un lavoro bellissimo ed entusiasmante, ma occorrono disciplina e sacrificio, senza per questo guadagnare di più rispetto agli altri medici. 30-40 anni fa era diverso e lo è ancora probabilmente in molte regioni, ma dove la sanità pubblica funziona non è più così.

C’è un calo delle vocazioni?

Ci sono sicuramente delle incertezze. Penso al posto di lavoro che può non esserci un domani, alla pensione tutta da costruire e ai contenziosi legali che possono complicare le cose.

A proposito di pensioni, c’è chi ha lanciato l’allarme dei possibili effetti di quota 100 sulla categoria.

Io ho il dente avvelenato su questa cosa. Sono a quota 107 o 108, credo. Ma so che mi verrà decurtata la pensione per permettere a gente più giovane di me e che ha lavorato meno di andare in pensione prima del sottoscritto. E non mi si parli di lavori usuranti.

Si rischia davvero un esodo di massa?

Questo non lo so dire, ma sono tanti i colleghi che vanno in pensione. Negli anni Ottanta c’era una pletora di laureati in medicina disoccupati. Rispetto ad altri Paesi gli organici in Italia erano di fatto gonfiati con la scusa di fare svolgere ai medici anche mansioni amministrative. Ora siamo alle prese con una riduzione degli organici. Non è detto che tutti vengano rimpiazzati, ma si possono sempre andare a prendere professionisti dall’estero. Ad ogni modo il sistema andrebbe rivisto in generale, poiché non vi è tutto il supporto necessario.

Cioè?

Faccio un esempio. Nel periodo estivo bisogna fare spesso i conti con la mancanza di personale. Per alcuni tipi di intervento differibili questo non è un grosso tipo di problema, perché anche i pazienti se possono preferiscono evitare di essere operati a Ferragosto, ma per gli interventi più importanti e indifferibili siamo costretti a fare salti mortali. Se il personale potesse essere gestito in modo più flessibile potremmo fare molto di più. Invece dobbiamo sottostare a norme europee sugli orari di lavoro che in Italia vengono interpretate in modo molto più restrittivo che in altri paesi , e che rischiano di paralizzare il sistema.

Ci ha parlato del caso della ragazzina di Genova. Ce n’è un altro che ricorda particolarmente?

Sì. Un intervento di trapianto sul filo di lana per un bambino di pochi mesi. Era estate, la madre voleva donare, ma in questi casi bisogna garantire al vivente la massima sicurezza, per questo non volevamo fare il trapianto nel bel mezzo del periodo di ferie, rischiando di non essere a pieno regime. Il bambino poteva attendere ed abbiamo programmato il trapianto da vivente a settembre. Uno dei vantaggi del trapianto da donatore vivente è proprio quello di potere programmare l’intervento in condizioni ottimali. Nelle ultime settimane, però, le cose si sono complicate in modo inatteso ed estremamente repentino, 3 giorni prima del trapianto programmato il bambino è arrivato a sviluppare un arresto cardiaco e a essere intubato in rianimazione.

Che cosa avete fatto?

Mi trovo in Belgio per un convegno, quando ricevo la telefonata che mi informa dell’ulteriore aggravamento della situazione. Il trapianto era già programmato per pochi giorni dopo, ma le condizioni erano ormai proibitive. Da un lato il bambino non poteva più attendere e dall’altro il trapianto rischiava ormai di essere inutile. Non era però ammissibile che il bambino morisse, con la mamma da tempo disponibile a donargli una parte del fegato. Sono quindi tornato in fretta e furia, anticipando di due giorni il trapianto. I colleghi mi chiedevano ‘sei sicuro di volerlo fare?’ Abbiamo quindi eseguito il trapianto non programmato da vivente, che alla fine è andato benissimo. Il bimbo e la mamma stanno bene, ma dimenticare quelle ore è difficile anche oggi.

Come si gestisce la pressione in una situazione simile?

Il nostro è un lavoro iperbolico, fatto di estremi. Quando le cose vanno bene è facile rischiare deliri di onnipotenza, ma quando vanno male il ridimensionamento è istantaneo e la depressione pesantissima. Detto questo, con la pressione tutti dobbiamo fare i conti. Prima o poi, per fortuna, si impara.

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