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Cinema

Il concorso

Bergamo Film Meeting si tinge di “Rojo” sangue argentino

Il concorso del 37° BFM si apre con un film decisamente interessante e denso di spunti, curato nella regia di Benjamìn Naishtat

Titolo: ROJO
Regia e sceneggiatura: Benjamin Naishtat
Produzione: Argentina, Belgio, Brasile, Germania, Francia, Svizzera
Interpreti: Alfredo Castro (investigatore Sinclair), Andrea Frgerio (Susana), Dario Grandinetti (Claudio)

Il concorso del 37° Bergamo Film Meeting si apre con un film decisamente interessante e denso di spunti, curato nella regia: “Rojo” di Benjamìn Naishtat.

Il rosso c’è ma non si vede. Ambientato nell’Argentina del 1975 – un anno prima del golpe militare che portò al potere Videla -, la pellicola descrive con efficacia, e tenendo avvinto lo spettatore, il clima sociale di quel momento nel paese. Claudio è un avvocato di provincia con una bella moglie che una sera in un ristorante viene attaccato pesantemente da un giovane sconosciuto assai alterato. Claudio dapprima sembra subire, poi garbatamente reagisce umiliando lo sconosciuto e con l’appoggio dei presenti l’uomo viene allontanato.

Da quel momento seguiamo Claudio in una serie di vicende apparentemente un po’ slegate che ci rivelano via via gli atteggiamenti pericolosamente conformisti della borghesia che il protagonista rappresenta.

Il film si ricompone proprio attorno alla figura iniziale dello sconosciuto e all’indagine sulla sua scomparsa. “Rosso” è il colore del sangue che non si vede quasi mai nel corso del film ma che continuiamo ad aspettarci di vedere. È il segno invisibile di una violenza presente e sempre più palpabile nella società e nella vita di tutti i giorni.

Non vediamo infatti molto sangue quando lo sconosciuto si spara, ma lo sentiamo rantolare a lungo e sommessamente quando viene trasportato nell’auto di Claudio e della moglie, poi quando viene lasciato nel deserto. Non vediamo schizzare sangue al rodeo, quando la lama si avvicina ai testicoli del vitello legato, perché il montaggio ci porta direttamente al momento in cui la gente mangia la carne arrostita dell’animale.

Non vediamo sangue e non diviene mostrato cosa succede al ragazzo caricato in auto dagli altri giovani, ma sappiamo che non farà ritorno. d’altro canto il rosso è il colore pervasivo di cui si tinge tutto nella sequenza dell’eclissi e in quel momento tutto pare sull’orlo di uno scoppio di violenza inaudita, in una sequenza degna del miglior Altman dove la banalità di gesti quotidiani prepara una deflagrazione fortissima. Altri segnali di violenza, di stupro questa volta, sono disseminati nello spettacolo di danza che ripetutamente prova la figlia di Claudio a scuola, e che somigliano a “prove tecniche di violenza sull’Argentina”.

La metafora di un’Argentina immersa in un clima aggressivo, che si avvicina rantolante al baratro del golpe, è sempre più chiara nel corso del film, ma la riflessione di Naishtat è particolarmente riuscita perché oltre al livello storico-politico si focalizza sulla complicità culturale della società.  Già negli anni precedenti al golpe, infatti, la classe media non vuole interrogarsi sulle sparizioni continue o le fughe dei vicini della porta accanto, un genocidio che avrebbe portato alla “scomparsa di oltre 30.000 sospetti “sovversivi”. Illuminante la scena dell’illusionista che insiste sulla parola “desaparecer” in uno spettacolo che diverte il pubblico, mentre Claudio inizia a mostrare segni di disagio.

Sempre a proposito di complicità socio-culturale va citata la sottolineatura dell’autore attraverso il prologo. Insolitamente lungo prima della comparsa dei titoli di testa e del titolo, il prologo mostra una sequenza con inquadratura fissa frontale della facciata di una graziosa villetta; in modo molto teatrale – perché ordinatamente scandito nei tempi e nello spazio occupato sullo schermo – dalla porta di ingresso escono a turno persone ben vestite, ciascuna recando un oggetto della casa più o meno voluminoso.

Prima un signore distinto con bastone e cappello porta sottobraccio un orologio antico, poi due persone trasportano un televisore, una donna uno specchio, da ultima un’anziana esce, si infila gli occhiali da sole e spinge una carriola ingombra di oggetti. Alla fine un uomo si avvicina alla porta e la apre, entra, grida “c’è nessuno?” e poi esce chiudendosi la porta alle spalle.

Nel corso del film intuiremo che la casa appartiene a una famiglia violentemente allontanata dalla polizia – all’interno ci sono tracce di sangue e per terra una foto del Che -, che un vicino riesce facilmente a entrarne in possesso simulando una compravendita con un prestanome, che Claudio collabora all’operazione.

Perbenismo, conformismo e ignavia. La ”mayorìa silenciosa” – afferma il regista al termine della proiezione – che crede di non partecipare, di tenersi ai margini della politica,  è invece la più pericolosa nel creare le condizioni perché si verifichino strappi dolorosi alla democrazia.

Due ultime osservazioni. La prima: il film procede sicuro in un crescendo di azioni che rivelano il climax della violenza sottesa alla vita quotidiana e il protagonista inizialmente in pieno controllo della propria vita professionale, familiare e sociale diviene insicuro e preoccupato. Un investigatore cileno si inserisce come un corpo estraneo nella vicenda e individua non solo il responsabile della scomparsa dello sconosciuto, ma anche l’enormità di quello che sta per accadere, quando sia legge che religione verranno meno.  Con uno stile investigativo alla Tenente Colombo e un linguaggio biblico l’investigatore funge da epica voce della coscienza, disperata.

La seconda osservazione: il film, dopo il discorso dell’insegnante che ambiguamente da un lato pare un rimprovero alle autorità ma d’altro canto inneggia alla gente argentina che vuole semplicemente lavorare e stare in pace (il massimo del conformismo…?), si conclude con l’inquadratura del pubblico che applaude al discorso e l’avvicinamento della camera a un primo piano su Claudio. Scopriamo che il nostro avvocato ha deciso di indossare una parrucca x coprire la propria incipiente calvizie. Come dire che la vita continua, basta avere un posticcio sopra la testa e probabilmente anche sulla coscienza?

“Un luogo distante ma non così distante” ha detto il regista prima della proiezione del film, ed è proprio su questo crediamo valga la pena riflettere dopo aver visto “Rojo”, sul “rosso” che c’è in casa nostra qui e ora.

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