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Automha

L'intervista

“Automha, oltre l’idea e il cuore: il valore aggiunto del manager in azienda”

Giuseppe Stefanelli, ceo di Automha, spiega l'importanza del ruolo di un manager in un'azienda: dal passaggio generazionale ai criteri organizzativi, dalla responsabilità al modello europeo di impresa

Perché le aziende bergamasche e italiane vendono? Perché sono così appetibili sul mercato? È vero che le generazioni che subentrano al fondatore non hanno quello slancio iniziale e preferiscono passare all’incasso? Domande che abbiamo posto ad un manager che è stato chiamato a dirigere un’azienda familiare in grande espansione in cui i figli lavorano a fianco del fondatore della società.

Giuseppe Stefanelli, ceo di Automha, esordisce precisando che: “Le persone pensano che le aziende a gestione familiare siano una caratteristica tutta italiana. Invece non è così. In Italia le aziende familiari arrivano a poco più del 90% delle aziende, ma la stessa cifra, di poco inferiore, c’è in Germania, in Francia e in Inghilterra. La differenza è la presenza di manager esterni che partecipano alla gestione di queste società, questa è la vera differenza con l’Italia. Nel nostro Paese non si supera il 20-30%, mentre in Germania si sfiora in 70% e in Inghilterra si arriva quasi all’80%. Le aziende familiari europee hanno sempre considerato con favore l’introduzione di un manager esterno alla famiglia”.

Come si sente quindi: più italiano o più europeo?
“Automha Spa è un’azienda familiare nata 39 anni fa, che segue la tendenza europea. I figli Roberta e Gianni Togni sono in azienda, il papà Franco Togni è presidente, la continuità generazionale persiste, soltanto che c’è un manager esterno che dirige e organizza l’azienda nel suo processo di crescita e prepara la continuità generazionale dell’azienda. Questo avviene perché la società sta assumendo compiti sempre più importanti e tutte le esperienze organizzative e manageriali devono essere rese patrimonio comune dell’azienda ma, soprattutto trasmesse alle nuove generazioni”.

Perché in Europa si è maturata questa consuetudine e in Italia no?
“Perché in Italia, come diceva pochi giorni fa il presidente nazionale della piccola industria, l’imprenditore (non tutti ovviamente) non ammette che un manager esterno possa insegnare qualcosa ad un imprenditore; ma soprattutto non ammette che un manager esterno possa sapere qualcosa di più sull’azienda di quell’imprenditore! Ma questo non è vero soprattutto dal punto di vista organizzativo, della pianificazione e del controllo”.

Che cosa porta in più un manager in azienda?
“Innanzitutto un distacco tra la parte di cuore e la parte di cervello. Questo tipo di aziende è legata molto di più al cuore. Alcune scelte, così come alcuni criteri organizzativi, primo fra tutti per esempio il concetto della responsabilità, sono introdotti più dal manager esterno che dall’imprenditore. Poi il manager esterno porta anche le esperienze maturate nelle diverse aziende, ha un bagaglio più variegato di conoscenze e di vissuto. Il manager esterno deve tendere alla crescita del valore dell’azienda e alla separazione dei ruoli, mentre la famiglia deve capire quale differenza intercorre tra i ruoli di socio, l’amministratore e dipendente. Ruoli che a volte vengono confusi e le responsabilità a volte non si ritrovano più nei ruoli giusti”.

Perché le aziende italiane, ad un certo punto della loro esistenza, vendono?
“Vendono perché il fondatore, nel primo passaggio, molte volte non ritrova nei figli le stesse motivazioni che hanno spinto lui a creare l’azienda. A volte vende perché si realizza un guadagno non indifferente. Infine, a volte, alcuni imprenditori vendono poiché non sono fiduciosi sulle politiche industriali che si attuano nel nostro Paese”.

È una questione sia politica sia bancaria? Il nostro sistema finanziario non sostiene a sufficienza le imprese?
“Il sistema finanziario sostiene le aziende purché queste siano in grado di presentarsi in maniera adeguata al sistema bancario. La battuta che si dice sempre “le banche aiutano chi non ha bisogno”, in parte è vera, ma in parte le banche dovrebbero aiutare le aziende a capire quale sono le informazione che devono produrre per accedere al credito bancario. A volte l’imprenditore di una piccola azienda non è in grado di presentare in banca i documenti idonei a dimostrare il potenziale della società”.

Perché le aziende italiane sono un’attrattiva per i colossi stranieri?
“Non sono solo i colossi stranieri che vengono a comprare le aziende ma anche i finanziatori istituzionali ei fondi stranieri. Come Automha, da quando abbiamo cominciato a farci conoscere, siamo oggetto di costante attenzione da parte di investitori finanziari e grandi aziende estere che vogliono acquisire Automha, e il motivo è sempre lo stesso: le aziende italiane, molte, rappresentano delle vere e proprie eccellenze. E a differenza del resto del mondo economicamente evoluto, l a gran parte di esse sono small o medium company rispetto alle grosse aziende che rappresentano invece la caratteristica degli altri paesi”.

Una società come Automha potrebbe comprare un colosso estero?
“Una società come Automha adesso sta crescendo e deve ancora sviluppare tutto il suo potenziale. In questo momento non siamo in grado di comprare un colosso. Stiamo crescendo per vie interne. Ma stiamo crescendo in modo ‘corretto’ senza inseguire il fatturato o il numero dei dipendenti. Il tutto deve essere coerente con la redditività che poi, porterà al seguito gli investimenti e quindi la crescita del fatturato e del numero degli addetti. Ora stiamo crescendo in maniera adeguata e stiamo assumendo tanto personale (30 nuovi assunti solo nel 2018), ma sempre un occhio al conto economico”.

La politica fa abbastanza per incentivare il lavoro e incrementare le assunzioni?
“C’è stato un periodo in cui le scelte politiche sono andate in queste direzioni. Tradizionalmente Automha generava l’85-90% del fatturato al di fuori dell’Italia; ma le norme sull’iperammortamento hanno risvegliato un settore che in Italia era morto. Mentre produciamo magazzini automatizzati a iosa in Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Romania, India Far East, medio oriente e nord America in Italia facevamo poco e niente, in realtà solo le aziende più “belle”. Negli ultimi due anni però questa quota in Italia è cresciuta in maniera considerevole. Ma se poi il 9 agosto viene diramata una circolare dell’agenzia delle entrate nella quale si dice che i magazzini autoportanti non sono incentivabili, è chiaro che tutti gli imprenditori che in Italia hanno deciso di fare magazzini automatizzati si ritrovano con i conti che non tornano. È una questione puramente tecnica ma andava chiarita prima e caso mai non con effetto retroattivo. Da questo punto di vista credo che una maggiore vicinanza delle istituzioni alle aziende ci vuole assolutamente”.

Un appello alle famiglie che continuano a lavorare e puntano sulla continuità generazionale?
“Il mio appello è quello di credere nei figli. È chiaro che il figlio avrà difficoltà e magari non avrà mai la stessa scintilla che ha avuto il genitore. Il figlio di un genitore che ha costruito un’azienda sensazionale, difficilmente avrà le stesse caratteristiche, ma lui deve gestire e mandare avanti l’azienda apportando le proprie esperienze e le proprie capacità, potendo sempre contare sui consigli dei fondatori. Quindi si! Io investirei sempre nei figli, magari facendo fare loro un periodo di esperienza in un’altra azienda e poi, naturalmente garantendo il giusto mix con i manager esterni”.

Il cambiamento può spronare un’azienda?
“Il cambiamento in azienda è necessario: il manager in azienda deve veicolare anche il sentimento di “insoddisfazione”. Intesa come la certezza che in qualsiasi settore, in qualsiasi lavoro c’è sempre un margine di miglioramento. Posso anche avere la certezza di aver raggiunto il 100% oggi, ma già domani qualcun altro starà innovando. E al cambiamento devo pensarci oggi e non domani. E come dico spesso in azienda: a seguito di una scelta di cambiamento non potrà mai esserci un fallimento: o si vince o si impara”.

Questi grandi colossi che comprano in Italia, poi riescono a mantenere quella scintilla o perdono un po’ di smalto?
“I colossi industriali esteri tendono un po’ a prevaricare e a frenare le iniziative locali perché sono aziende industriali e, normalmente, tendono a prendere il meglio e poi portarlo nel sede territoriale di provenienza o di migliore resa fiscale. Se sono invece investitori istituzionali o finanziari molto spesso forniscono solo le condizioni migliori affinché la scintilla continui a brillare”.

Non si deve temere l’arrivo dei colossi esteri che comprano le aziende italiane?
“Intanto non si può evitare che questi colossi esteri non comprino. Non dobbiamo preoccuparci, tuttavia, dei colossi stranieri, ma occuparci della nostra azienda, così quando arriva il colosso straniero l’azienda deve essere preparata a competere dal punto di vista commerciale. Che un grande gruppo straniero arrivi è certo. Non è un se, ma solo un quando: occupiamoci adesso delle nostre aziende e su come affrontare il colosso, impariamo ad essere forti o anti-fragili se preferisce. Dobbiamo imparare non ad essere ostinatamente duri, ma ad affrontare il cambiamento e ad accettarlo: quando è in arrivo un forte vento il contadino può costruire un muro per proteggere la sua casa ed il suo campo oppure costruire un mulino a vento e sfruttare il vento per diventare più forte e migliorare il suo prodotto o processo. Non dobbiamo avere paura del vento del cambiamento ma cavalcarlo”.

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