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La recensione

Quell’amore di Antigone che tanto ha da insegnare ai giovani

C’è tutto, nell’Antigone di Sofocle, così magistralmente portata sul palco del Teatro Sociale di Bergamo con la regia di Gigi Dall'Aglio

Ero al terzo anno di liceo quando la mia professoressa di latino e greco ci parlò per la prima volta dell’Antigone di Sofocle, tragedia greca del V secolo. E, tra la lettura, la traduzione del testo e lo studio del suo contesto storico, iniziai a cogliere le sfaccettature, a sentire l’animo, a conoscere la personalità di quella che sarebbe diventata (insieme a Medea) la mia eroina tragica preferita.

Lei, nata per condividere l’amore e non l’odio.

Lei, venuta al mondo per essere sovversiva, disubbidire e portare avanti la tempra infuocata di suo padre Edipo.

Lei, che dà la vita per amore, per l’amore più grande di tutti: quello per un fratello.

Lei, donna, creata per diventare una moglie, una madre, una creatura ubbidiente, ma che sceglie, invece, di voltare le spalle verso il suo destino da sposa, abbracciando quello di eroina e di mito.

Lei, così diversa e capita solo da alcune persone che condividono insieme a lei il dovere di amare e onorare la famiglia, a costo della morte.

C’è tutto, nell’Antigone di Sofocle, così magistralmente portata sul palco del Teatro Sociale di Bergamo con la regia di Gigi Dall’Aglio. Tutto l’amore dell’uomo che, come dice la protagonista, è fatto per l’amore.

L’amore tra padre e figlio, fatto di ubbidienza e rispetto, come quello del re di Tebe Creonte e Emone. Il quale ama Antigone, di quell’amour fou che lo farà uccidersi insieme a lei, nell’atto finale della tragedia; l’amore di una madre, la moglie di Creonte, che si uccide a sua volta quando apprende del suicidio del figlio. E l’amore tra sorelle e fratelli, indissolubile, forse il più importante perché insostituibile, che lega i figli di Edipo.

È in nome di questo profondissimo legame che si sviluppa la tragedia: Antigone si ribella al divieto del re di dare sepoltura a suo fratello e lo seppellisce, andando incontro alla reclusione perpetua in una caverna ed al suicidio.

È sempre vestita di rosso la fenomenale Arianna Scommegna che interpreta la protagonista della tragedia: simbolo del fuoco che l’anima nel gridare il diritto ai suoi sentimenti, ma anche simbolo di una vittima, sacrificata in nome delle leggi umane. In quel vestito rosso e i capelli arruffati, è tornata in vita la mia grande e amata Antigone, arrivando ad amarla ancora più di quanto leggevo di lei nelle righe della tragedia.

L’ingiustizia che colpisce Antigone è palpabile nella recitazione degli attori: il re Creonte (Stefano Orlandi) che all’inizio sembra parlare dall’alto di un pulpito, insensibile al popolo; la guardia che, inscenando un discorso tra il comico e il tragico, denuncia Antigone, combattuto tra la consapevolezza che “è triste condannare gli altri”, ma che, dopotutto, è meglio salvare se stessi; la voce fuori campo – bellissima, roca quanto basta per creare un grande pathos.

Infine la musica, a sottolineare i tempi della tragedia, con il canto dell’imeneo di una dolcezza struggente che, invece di accompagnare Antigone verso il letto nuziale, la conduce al suo letto di morte che condividerà con l’amato Emone. Sopra a tutti, il coro: tragico, con le voci che sanno modularsi nel crescendo delle passioni.

Una messa in scena dell’opera di Antigone potente e bellissima, apprezzata anche dai numerosi studenti che affollavano la sala e ascoltavano in completo silenzio.

Ed al teatro Sociale, si sa, il silenzio non è facile. Da mantenere.

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