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Musica

Il discomane

David Bowie live, Glastonbury 2000: indimenticabile e finalmente “ufficiale”

E poi la splendida Beth Hart alla Royal Albert Hall, i Superchunk e la delusione Gregory Porter: sfilza di segnalazioni approfondite dal nostro Discomane.

Artista: David Bowie
Titolo: Glastonbury 2000
Voto: ****1/2

Quel 25 giugno 2000, probabilmente, David Bowie fece uno dei concerti più importanti della sua carriera. Il “duca Bianco” tornava ad esibirsi al festival dopo quasi trent’anni e come headliner. Da poco era uscito “Hours” un album non certo indimenticabile. Quella sera David Bowie al meglio della sua forma fisica, salì sul Pyramid Stage per proporre la migliore scaletta possibile, fatta di 21 canzoni, accompagnato da una formidabile band composta da Earl Slick e Mark Plati alle chitarre, Gail Ann Dorsey al basso, Sterling Campbell e Holly Palmer alle percussioni, Mike Garson e Emm Gryner al pianoforte e alle tastiere.

Oggi quel concerto, dopo aver trovato nido su innumerevoli bootleg, finalmente viene pubblicato in versione integrale e ufficiale nel doppio CD “Glastonbury 2000”,
disponibile anche in in 3 LP, in digitale (standard e alta risoluzione) e su 2 CD + DVD. L’artwork del disco è stato curato da Jonathan Barnbrook, l’illustratore che Bowie volle al suo fianco per la parte grafica dei suoi ultimi album, compreso “Blackstar“.

All’epoca del concerto, più che al passato, David Bowie nutriva un forte interesse per il presente e il futuro: lo testimoniano dischi come Outside pieni zeppi di suoni
industriali o come Earthling popolato da drum machine. Ma quel concerto, davanti a quasi 100.000 persone, rappresentava una sorta di rivincita se confrontato a quando 30 anni prima aveva suonato e cantato davanti a tremila anime nel pieno della notte. Così quella sera decise di salire sul palco dando al pubblico quello per cui il pubblico si era presentato così numeroso: una manciata di canzoni immortali, in versione essenziale ma memorabile grazie al contributo di una band stellare. Poco importa se
la voce a volte non è perfetta, se qualche suono risulta oggi un po’ datato.

Il mito, quella sera, è salito sul palco per piacere, per rinsaldare un’unione con un pubblico adorante.

Si parte quindi con l’intro “liquido” di Mike Garson che serve per dare il benvenuto al cantante. Un intro di solo piano con chiare influenze jazz, sufficiente per dare il tempo alla band di attaccare Wild is the Wind, una cover di un brano del ‘57, già nel repertorio di Nina Simone, sulle note della quale David Bowie entra in palcoscenico. La voce non è perfettamente calibrata, ma colpisce l’autorevolezza dell’interpretazione e percepisci, anche solo ascoltando, che il pubblico è tutto lì già in venerazione. Il
pathos è quello giusto, l’accompagnamento musicale la dice lunga sulla qualità dei comprimari.

Il problema è che non fai a tempo a capire che il ritmo aumenta perché è la volta di China Girl, uno dei brani di punta di Let’s Dance. La versione è molto fedele all’originale, i cori forse sono un po’ datati ma la canzone è ormai mito ed è sempre piacevole. È quindi la volta di Changes ed è una bella versione, anche se un po’ scarna
e la mancanza del sax si sente, forse qualche “lustrino” in più avrebbe fatto la sua parte.

Meglio Stay: la versione è essenziale, con batteria e chitarra in primo piano, la voce questa volta è ben calibrata ed il brano è un gran divertimento. Ma se celebrazione
deve essere celebrazione sia ed ecco allora sulle note riconoscibilissime del piano è la volta di Life on Mars, ed è ancora una versione asciutta solo piano e voce anche se è
questa e l’interpretazione a fare la differenza.

A questo punto il duca cala il tris d’assi: Absolute Beginners è meno luccicante rispetto alla versione in studio, ma ugualmente efficace, Ashes to Ashes molto fedele
all’originale anche se la batteria in primo piano gli dà una patina più rock che su disco, e Rebel Rebel è l’occasione per scatenare il pubblico: versione senza sorprese per un
brano che resta comunque un classico.

Little Wonder sconta il fatto di non essere una hit mentre Golden Years che chiude il primo disco è roccata al punto giusto anche se i cori non mi sembrano un granché.

Il secondo disco parte con Fame, in primo piano la voce e i cori, il muro di suono della registrazione in studio qui è meno efficace e il brano perde un po’ di fascino che invece conferma All the Young Dudes, grazie ai profumi pop che esala e a un ritornello che, soprattutto negli stati o nelle grandi arene, è efficace.

The Man Who sold the world non aggiunge nulla mentre Station to Station, il brano nel repertorio di Bowie che prediligo, introdotta dal rumore del treno che parte,
mantiene intatto il proprio fascino in una versione meno dura del solito e dove il suono del piano rappresenta un quid in più rispetto all’originale. Poi però le chitarre
tornano ad essere protagoniste assolute, la batteria ben presente e i cori ancora poco convincenti. Ad ogni modo il solito grande brano.

Il concerto si avvicina alla fine ma c’è ancora tempo per un tuffo nel passato: Starman scorre via in modo fluido fino all’arrivo del noto refrain che resta tra i più belli della
musica rock e, introdotta da un “come on” rivolto al pubblico, è la volta di Hello Spaceboy, oscura e inquieta.

Quindi Under Pressure: ok Freddie Mercury non c’è , ma il giro di basso è quello di sempre e le note del piano malinconiche al punto giusto. Manca poco per completare
la storia: Ziggy Stardust è quella di sempre mentre delude Heroes, un poco raffazzonata e con quel ritmo funky che gli sottrae tutta la drammaticità che invece era il tratto dominante.

Piuttosto, se di ritmo si parla, molto meglio Let’s Dance, introdotta a sorpresa da una dolce melodia che permette a Bowie di dare menzione del chitarrista , vive di un ritmo rallentato nei primi due minuti di esecuzione, tanto che la canzone si riconosce solo dal testo. Dopodiché il ritmo sale, la musica diventa famigliare e l’arrangiamento
essenziale dà ulteriore spinta al brano.

Un grande concerto al quale finalmente viene data giusta evidenza. A me mancano un po’ le sfumature soul e funky ma è indubbio che la presenza di grandi musicisti
contribuisce a rendere queste versioni, quasi sempre più essenziali rispetto all’originale, comunque memorabili. Unica pecca, i cori spesso un po’ troppo datati. Ma è un dettaglio.

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beth hart

Artista: Beth Hart
Titolo: Live at Royal Albert Hall
Voto: ****1/2

Per anni Beth Hart ha vissuto negli inferi salvandosi solo per il dono che il Signore o chi per lui gli ha concesso: la sua voce. Grazie a questa, artisti ben più noti di lei come Joe Bonamassa e Jeff Beck, si sono accorti per tempo, supportandola e contribuendo a farla conoscere al mondo, garantendo per lei, con la loro presenza nei concerti e nei dischi.

Piano piano Beth Hart sta avendo i riconoscimenti che merita: il suo nome circola sempre più frequentemente e negli ambienti che contano ha sempre più considerazione; il pubblico, sempre più numeroso, la segue tributandole sempre maggiori riconoscimenti. Quest’anno a coronare una crescita costante Beth Hart ha vinto il premio ai Blues Music Awards, anche se relegarla ad un genere specifico significa, in realtà, sottrarle qualcosa. Da parte sua l’artista ricambia tanta considerazione con una copiosa produzione discografica (questo è il quarto disco dell’anno che pubblica) con un atteggiamento mai da diva, con una generosità e un coinvolgimento che anche in questo disco sono ben evidenti, con una sincerità di intenti che non può lasciare indifferenti.

Beth Hart è una donna che ha vissuto i peggiori disagi di un’artista, ha conosciuto la droga, la depressione. Oggi, tutto sembra essere superato. Poteva essere una delle
tante vittime dello star system e probabilmente non è e non sarà così; resta un’artista senza veli, dotata di un talento senza fine, convincente in tutto quello che fa, sia che si tratti di un rock corposo, che di un blues straziante che di un brano soul dove se non ci metti l’anima l’effetto è irritante o soporifero.

Live at the Royal Albert hall è il live che molti artisti avrebbero voluto incidere, per forza, intensità, repertorio, musicisti e d è il giusto compendio di una carriera che oggi
è riconosciuta da un pubblico sempre più ampio. Il disco è accompagnato da un dvd al quale ci si può riferire per meglio comprendere cosa sia oggi un concerto dell’artista, ossia un’occasione per ascoltare ottima musica, non catalogabile in un genere preciso ma dove invece le contaminazioni, i cambi di umore, di ritmo, sono il tratto caratteristico.

Si capisce dal dvd che l’artista oggi, finalmente è in pace con se stessa e forse con tutti i propri affetti (i saluti alla mamma e i riconoscimenti sono frequenti durante il
concerto) e tutto ciò fa sì che le interpretazioni siano sempre coerenti con l’immagine di una donna matura e capace di governare le proprie doti, i propri sentimenti , le
proprie emozioni.

Il concerto si tiene in uno dei teatri più prestigiosi al mondo, segno ulteriore dello status dell’artista, la sala è sold out e questa sera Beth ha deciso di premiare i presenti
con uno show memorabile di quasi due ore, dove i brani si alternano senza soluzione di continuità, dove la commistione di genere è il filo conduttore di tutto il concerto.

L’inizio è da brividi: a luci spente l’artista entra in scena intonando a cappella As Long as I have a Song per arrivare a sorpresa in mezzo al pubblico che già la adora. Tempo di sistemarsi sulla sedia e parte una versione anfetaminica di For My friend, una cover di un brano di Bill Withers, perfetta per scaldare il teatro; il gruppo alle sue spalle formato da Jon Nichols, (chitarra), Bob Marinelli (basso) e Bill Ransom (batteria), è eccellente e suona come se i Cream non si fossero mai sciolti. La versione è poderosa, la voce roca e potente.

Neanche il tempo di riprendersi ed ecco arrivare Lifts You Up, una sorta di torrido rock blues con accenti boogie, che permette a Beth di esprimere tutto il potenziale canoro e anche di gigioneggiare un po’ con il pubblico che, manco a dirlo, la segue senza condizioni.

Ma anche l’artista a questo punto sente il bisogno di concedersi una pausa e così ecco partire il blues e le cadenze lente di Close to My fire, dedicata alla madre, un brano nel quale in un’atmosfera sospesa, l’artista mette in mostra tutte le sfumature della sua voce; perfetto il solo di chitarra sul finale.

È quindi la volta di Bang Bang Boom Boom, forse il brano più noto del repertorio della cantante che ha dato il titolo ad uno dei suoi dischi passato; la versione è spumeggiante, con accenti country e una chitarra che ricorda le colonne sonore dei film di Sergio Leone, e che permette a Beth di scherzare con il pubblico, mentre
seduta al pianoforte dirige la band. Il ritmo è leggermente accelerato rispetto alla versione in studio. Non è uno dei brani del repertorio che preferisco ma certamente
dal vivo acquista in piacevolezza.

Terminata Bang Bang Boom Boom ecco arrivare Good as it Gets, ancora un brano effervescente, dove rock, soul e un (pizzico) di pop si mischiano elaborando una versione molto piacevole e saltellante e poi Spirits of God è ancora ritmato, allegro, che induce a muovere il piede a tempo; è la volta di uno dei brani da me preferiti ossia Baddest Blues, scritta ai tempi per la mamma e per Billie Holiday: una sorta di viaggio introspettivo, con un inizio di solo piano e voce, che trasuda blues (e dolore) da ogni nota. Il resto lo fa un’interpretazione perfetta della dell’artista

La stessa emotività è quella che si trova nella successiva Sister Heroine, dedicata, questa volta, alla sorella scomparsa. Ancora un intro fatta di solo voce e piano che
precede l’entrata di tutta la band, il cui suono però è rispettoso dell’evidenza che l’artista intende dare al testo a alla sua interpretazione. Un brano introspettivo dove la
ripetuta frase I love you, una volta tanto non sembra declamata invano.

Fine dell’intervallo intimo perché parte una versione corposa di Baby Shot me Down con la chitarra wah-wah di Nichols in primo piano cui fa seguito Waterfalls, un brano
nel quale Beth lascia libera la voce e duetta con il pubblico in un gioco di richiami. A un certo punto diviene un anfetaminico rock di altri tempi, dove la Hart assume le sembianze, di volta in volta, di Robert Plant, di Ian Gillan, richiamando alla memoria tutto il meglio di certa produzione anni ’70.

Chiude il primo cd Your Heart i sas Black as Night, una cover di Melody Gardot: il brano lento ed avvolgente si snoda per oltre sei minuti entro un atmosfera sospesa e
magica nella quale la chitarra di Nichols lancia saette fulminanti.

La seconda parte del concerto ha inizio con Saved, un rock ‘n’roll travolgente e indiavolato tratto dal repertorio di Lavern Baker, cui segue la divertita riflessione di
The Ugliest House on the Bolck, occasione per ricordare quando, Beth, viveva la sua condizione di “drogata perduta”.

Spiders on My bed è ancora un ricordo dei tempi difficili della gioventù. Qui Beth si esibisce al basso acustico, dimostrando discrete capacità ed il brano, essenzialmente
acustico, si fa piacere per freschezza e leggerezza, nonostante il titolo.

È la volta dei ringraziamenti e di un intermezzo ad alto tasso emotivo che inizia con Take It Easy On Me, con Beth al piano che regala un’interpretazione da brivido in
solitaria e che prosegue con Leave the Light On, dedicata al marito, al quale Beth deve senz’altro molto, tanto che nella presentazione si commuove sino alle lacrime. Viene interpretato in modo sereno, non doloroso e l’accompagnamento al piano ricorda alcune cose di Elton John. Alla fine, tutto suona molto bene.

È la volta quindi di Mama This One’s is for You, una ballata solo piano e voce, una sorta di preghiera di ringraziamento alla madre, per esserle stata sempre vicina. Il
brano è molto bello e commovente e se non fosse per il timbro della voce del tutto diverso si potrebbe dire che sul palco ci sia Carole King.

L’intervallo termina con My California: il marito raggiunge Beth sul palco, l’interpretazione è vera, genuina, coinvolgente, alla fine il pubblico riserva all’artista un’autentica ovazione, conscio che i quei 5 minuti l’artista ha dato tutto di sé.

Con My California finisce l’intermezzo acustico ma il pubblico ha bisogno ancora di decibel e ritmo: ecco quindi Trouble, un rock tirato, all’inizio del quale Beth stimola il
coinvolgimento del pubblico e nel quale tornano protagonisti Nichols e la sua chitarra.

Love is a lie è un brano che ricorda alla lontana Bang Bang Boom Boom, un po’ troppo teatrale per i miei gusti, molto meglio Picture in a Frame, nella quale l’artista torna ad essere essenziale regalando una ballata nella quel la sua voce è l’elemento in più.

Chiude il concerto, e anche il disco, Caught Out in the Rain e lo fa in bellezza con un lungo e corrosivo blues dalle tinte oscure, dove l’interpretazione della Hart è tanto
intensa da riportare alla mente quella delle migliori interpreti del genere, da Nina Simone, a Janis Joplin, alla Winehouse.

Un live memorabile. Uno dei più bei dischi dell’anno.

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superchunk

Artista: Superchunk
Titolo: What a time to be alive
Voto: ****

Mi erano proprio sfuggiti, troppo di culto per essere noti a me che cerco di ascoltare un po’ di tutto, troppo anacronistici rispetto ai suoni che vanno per la maggiore ai
tempi nostri. Poi il colpo di fortuna.

Scorrendo le classifiche di fine anno che già iniziano a essere pubblicate, scopro su un sito “amico” che i Superchunk stazionano nelle zone alte e mi incuriosisco. Così cerco di capirne di più: la loro storia mi attrae perché sono sul mercato da molto tempo, i loro dischi ad una prima lettura delle recensioni sembrano tutti belli. Il passo a
scaricare “What a Time to believe“ è un attimo. Ascoltarlo è come tornare indietro nel tempo: sano rock ‘n’roll senza alcuna sbavatura, melodie assassine, ritmi per cui il piede fa veramente fatica a stare fermo. Vero, forse si sono fermati alla fine degli anni ’70, ai Ramones, a Richard Hell, ma francamente se il tutto suona così bene, chissenefrega.

Il suono dei Superchunk è tremendamente fresco, benché i sentieri musicali che battono siano oramai senza sorprese. La rabbia che traspare sembra ancora genuina e
non costruita ad arte. C’è spazio anche per cantare a squarciagola, perché le canzoni sono (quasi) tutte orecchiabili. Anche se siete maturi come me, ascoltate il consiglio, comprate What a time to Believe e non ve ne pentirete: per una quarantina di minuti vi prenderà la nostalgia. Ma trattasi di sana nostalgia.

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gregory porter

Artista: Gregory Porter
Titolo: One Night Only
Voto: *

Allora… Gregory Porter al tempo dei primi due dischi era tra i miei favoriti. Voce stupenda, composizioni originali ben riuscite, arrangiamenti non stucchevoli ma
raffinati che evidenziavano una curiosità per tutto quanto fosse non convenzionale. Poi dal disco scorso… la svolta, alle mie orecchie indigesta. La musica perde genuinità, vuole solo piacere, il suono diviene troppo patinato, buono per gli ascensori dei palazzi delle sedi di banche, per i supermercati, per i negozi che vendono profumi.

La mazzata però arriva con questo disco live in cui la presenza dell’orchestra è veramente troppo invadente. I suoni sono zuccherosi e l’unica cosa che importa è piacere a tutti i costi, il problema è che piacere a tutti è impossibile. Ci sono riusciti solo i Beatles e non è un caso.

Se non mi credete ascoltate la versione di Quizas, Quizas e poi andate a sentire quella presente sul disco live dei Buena vista social club. E poi ditemi. La delusione
dell’anno.

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manhattan transfer

Artista: The Manhattan Transfer & Take 6
Titolo: Live on the soundstage the summit
Voto: ***1/2

Questa invece potrebbe essere la sorpresa dell’anno, per certi versi. Non so quanti anni abbiano i componenti dei due gruppi che da tempo rappresentano il massimo del
vocalese. Fatto sta che entrambi gli ensemble parevano aver imbroccato la china della loro popolarità e della loro ispirazione. Non appena saputo dell’uscita di questo lavoro fra me ho pensato si potesse trattare solo di un tentativo di rilanciare due marchi oramai appannati. Invece no!

Il disco è estremamente godibile e fresco, i successi dei due gruppi ci sono quasi tutti (salvo ahimè nessuna riproposizione del periodo brasileiro dei Manhattans) il suono è scintillante. Le versioni di Mean Joe, Tuxedo Junction, Overjoyed, Boy from the New York City, strepitose.

Da quello che sono riuscito a capire la prima parte è riservata ai Manhattan Transfer con l’orchestra e la seconda ai Take 6 che come loro solito si esibiscono senza alcun supporto sonoro se non quello delle loro voci. Altamente consigliato come regalo, può piacere a tutti senza che questo, per una volta, sia da considerare un difetto.

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