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L’opinione

Antonio Locatelli e quella sinistra che coltiva odio

Dopo le polemiche sul calendario patrocinato dal Comune di Bergamo con un omaggio a Locatelli

Pensare che possa esistere un mondo perfetto, governato da sentimenti di civiltà, di umana comprensione, di attenzione alla verità delle cose, è un’utopia: è il Paradiso immaginato da Dante ad avere per confine soltanto amore e luce. Ma un conto è conoscere i limiti dell’umana esperienza: altro è avere come unica visione della vita e dell’umanità soltanto odio e tenebra.

Eppure, ogni volta che venga messa alla prova, certa sinistra italiana dimostra di coltivare, come propria unica ragion d’essere, un odio feroce ed inestinguibile verso tutto ciò che sia, in qualche modo, contrario o anche semplicemente estraneo alla sua primitiva e deteriore Weltanschauung, che pure ha evidenziato, ad abundantiam, tutti i propri limiti di fronte alla storia.

Raccogliendo, poi, il consunto testimone della presunta superiorità morale di berlingueriana memoria, essa cerca di rendere razionale ed accettabile questo livore rabbioso con ragioni storiche e culturali la cui povertà -non tanto scientifica, che sarebbe bestemmia, quanto semplicemente informativa- è, forse, ancora più desolante della loro causa efficiente.

Il caso ultimo scorso, ovvero il perentorio “Niet!” opposto dalla risicata pattuglia di Rifondazione Comunista alla distribuzione del calendario comunale, recante la figura di Antonio Locatelli come eponima del mese di gennaio, ne è soltanto l’ultima, tristissima dimostrazione.

Il piegare il capo della nostra Giunta comunale, che speravo informata ad una visione più civile e documentata della storia bergamasca, è stato un segnale deprimente e pericoloso di come stiano effettivamente le cose, nelle cupe latebre della politica politicata nostrale.

Pur detestando, umanamente, lo spocchioso Burioni, mi viene da pensare che, davvero, sarebbe meglio che, su certi temi, prima di esprimersi, si esibissero titoli accademici adeguati: la storia è una scienza, come l’immunologia, e lasciarla nelle mani di esaltati ignoranti rischia di fare gli stessi danni, sia pure spirituali e non clinici, di certe teorie metacliniche.

Ma veniamo alla materia del contendere, ossia al fascismo di Locatelli, ritenuto ingiurioso per la nostra comunità, tanto da chiederne la damnatio memoriae e la cancellazione dal lunarietto.

Informazione numero uno: Locatelli era un eroe molto prima che il fascismo prendesse vita. Il Nostro venne decorato di triplice medaglia d’argento al valor militare, nonché di quella d’oro, a suggello di una carriera formidabile, che lo rese il miglior ricognitore della nostra forza aerea e, probabilmente, di tutti gli aviatori della Grande Guerra, quando Mussolini si proclamava ancora socialista.

Un analfabeta, che non merita neppure la citazione all’ordine del giorno, mi ha scritto che la guerra è male e che il fascismo non è un’ideologia, ma un reato. L’uomo che ha espresso il secondo concetto, ossia Gramsci, era, badalì, un interventista, il cui fratello fu eroe di guerra e fascista emerito. Il che dimostra che la storia è materia plastica, complessa, difficilmente decifrabile: non è un disegnino in bianco e nero, come pensano certi burbanzosi professori di nulla professione, che si sentono in grado di stilare valutazioni storiche solo in virtù della loro appartenenza alla religione comunista. Gli uomini non sono cellule, come sembrano postulare costoro: sono individui diversi, mutevoli, complicati.

E qui inserirei l’informazione numero due: quando Locatelli era fascista, lo erano anche molti di coloro che, poi, avrebbero scritto pagine memorabili dell’antifascismo, nonché, in certi casi, la nostra meravigliosa Costituzione, XII D. T. inclusa. Lo furono Ingrao e Nilde Iotti, Italo Calvino e Norberto Bobbio, Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca e, in extremis, riuscì ad esserlo perfino quel monumento della sinistra che è Dario Fo: perché, in Italia, durante il fascismo, gli antifascisti furono pochissimi e disperatamente solitari. Loro sì eroi: e, come tutti gli eroi, invisi alla massa, che segue sempre chi le dà la biada. Molti di loro si convertirono durante la guerra, constatando a quali enormi catastrofi il Duce aveva portato il Paese: molti di più scoprirono la propria fede antifascista a cose fatte, quando il rischio di buscarsi una pallottola era felicemente tramontato.

Perché così, da sempre, va il mondo: dopo la battaglia di Benevento, in Italia erano diventati tutti guelfi. Locatelli, che era un uomo dalla schiena diritta e di un’onestà a tutta prova, probabilmente, se fosse sopravvissuto all’eccidio di Lekemti, avrebbe modificato radicalmente la propria idea politica, come fecero tante altre brave persone: di fronte all’infamia delle leggi razziali o al disastro dell’Armir, difficilmente avrebbe applaudito il regime. Ipotizzo che avrebbe seguito l’iter di tanti Italiani, che cambiarono idea, quando videro in che abisso il fascismo aveva precipitato l’Italia: Carlo Emilio Gadda, fascista dal 1921, per tutti. Non possiamo saperlo, naturalmente: ma Pirandello o Marconi sarebbero rimasti fascisti, se fossero sopravvissuti?

E veniamo all’informazione numero tre, che riguarda il Locatelli guerrafondaio. In una lettera a casa, l’aviatore descrisse la gioia che provava bombardando il nemico: la qual cosa ha prodotto un’onda di esecrazione in tutti quei coltivatori della pace perpetua ed assoluta, che tifano per un’idea che ha fatto più morti di tutte le guerre messe insieme, e che celebrano il pacifismo distruggendo vetrine e massacrando i dissenzienti.

Non possiedo un dato scientifico, ma ritengo, nella mia modesta esperienza di storico militare, che quasi tutti coloro che abbiano bombardato il nemico provassero qualcosa di molto simile alla gioia: la cabina di un Lancaster o di un Savoia Marchetti non è la nostra comoda e sicura scrivania, dove si può serenamente ragionare della vittime della cattiveria universale. Un soldato combatte: e lo fa con spirito battagliero, se non con gioia vera e propria. Non cambia nulla se il bersaglio è rappresentato da Etiopi o Italiani, Inglesi o Tedeschi, Russi o Polacchi, Vietnamiti o Iracheni: alla guerra si va per vincere, altrimenti si diserta et tertium non datur.

Perciò Locatelli si limitò, ahilui, a mettere per iscritto e, quindi, a futura memoria, quello che avrà certamente pensato la maggioranza di coloro che incenerirono Dresda, spianarono la Dalmine o massacrarono gli abitanti di Hanoi: molti di costoro, peraltro, scrissero cose del tutto analoghe alle considerazioni entusiastiche di Locatelli, ma ebbero la fortuna di farlo in paesi in cui non vige la guerra civile permanente da più di settant’anni.

Ed eccoci all’informazione numero quattro: Locatelli podestà fascista. Glissiamo pure sul fatto che Bergamo, durante il fascismo, ebbe numerosi podestà e che Locatelli, nel suo brevissimo mandato, si dimostrò migliore di molti di loro e anche di qualche sindaco del dopoguerra: Locatelli, da podestà, fu tanto poco prono di fronte al regime da preferire, nella spinosissima questione del risanamento di Città Alta, un geniale ingegnere bergamasco, niente affatto fascista, agli architetti e agli ingegneri protetti dal partito. La qual cosa, a un dipresso, gli costò il posto, anche se le sue dimissioni furono giustificate dall’insulsa ed insultante legge contro il celibato: e Locatelli non piantò grane, non cercò di rientrare dalla finestra: se ne andò e riprese a fare quello che aveva sempre fatto, ossia volare. Una bella lezioncina di stile per i politicanti odierni, rivettati alle proprie seggiole, fascisti o antifascisti che siano.

E, per ultima informazione, veniamo a Bergamo, ai Bergamaschi, alla bergamaschità, che, evidentemente, è concetto che infastidisce enormemente i paladini di una società di tutti uguali, di indistinguibili cittadini del mondo, in cui il Premio Nobel e il tagliatore di teste siano solo declinazioni diverse del relativismo. Locatelli amava Bergamo e ne era, e spero lo sia ancora, ricambiato: egli fu bergamasco nel fisico e nel carattere, nell’agire e nei sentimenti.

Mentre il suo SVA sorvolava il Graben, nel volo su Vienna, il suo pensiero fu: “So contèt per Berghem!”. Niente frasi altisonanti, da tramandare ai posteri: nessuno di quegli inani apoftegmi che, spesso, su Facebook, sostituiscono il semplice ragionamento. Lui era contento per Bergamo: e Bergamo festeggiò in lui il proprio più celebre eroe. Locatelli era, semplicemente, amato. Quando Suardo ne pronunciò il discorso funebre, da quella stessa Torre dei Caduti da cui qualche pellegrino vorrebbe fare asportare il busto dell’aviatore, la piazza era gremita di Bergamaschi: gente di tutte le età e di tutte le condizioni, che non era stata perentoriamente radunata da un ukaze del regime. Uomini e donne che volevano piangere il loro concittadino caduto: che dimostravano alla famiglia e all’Italia che Bergamo era una città che sapeva amare, stringendosi a Rosetta Locatelli e all’anziana mamma. Che aveva perso Carlo sull’Adamello e ora anche il secondogenito, in Etiopia.

Perché questa era Bergamo, nell’anno di grazia 1936: non soltanto la vanagloria del regime o il sabato fascista, ma una comunità i cui valori esistevano da tanto prima del 1919, e sarebbero durati ben oltre il 1945. E Antonio Locatelli era il simbolo e una figura esemplare di questa Bergamo, sia che fosse fascista sia che non lo fosse: è questo che non capiranno mai, questi tristi odiatori che ne vorrebbero l’oblio. Perché, accecati dall’odio, non possono neppure immaginare quanta luce possa scaturire dall’amore.

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