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L'intervista

Dopo le minacce social Raul Montanari al Mestiere del raccontare

Come i protagonisti del suo ultimo romanzo "La vita finora" - in finale per il Libro dell'anno su Farenheit - che ritengono meno grave quanto avviene su sui social, ha ricevuto minacce via Facebook poi smontate nella vita reale, per il suo ruolo di presidente del premio Straparola a Caravaggio

Continuano gli incontri del festival Il Mestiere del Raccontare. Oggi, venerdì 7 dicembre, alle 18, Raul Montanari presenterà il suo ultimo libro “La vita finora” (Baldini+Castoldi Editore) alla libreria L’Emporio delle Idee di Costa Volpino.

Un gradito ritorno, quello di Montanari sulle sponde del Sebino: lo scrittore, che vive a Milano ma è originario di Castro (paese lasciato all’età di tre anni, ma al quale è rimasto molto legato e dove torna tutti gli anni) ha al suo attivo 15 romanzi ed è uno dei maggiori esponenti della narrativa italiana degli ultimi trent’anni. Proprio in questi giorni, inoltre, “La vita finora” è tra i finalisti per il premio “libro dell’anno” indetto di “Farenheit”, la storica trasmissione radiofonica di RadioRai3 (per votare bisogna inviare una mail a fahre@rai, mettendo in oggetto “libro dell’anno”).

Parliamo del suo ultimo romanzo: Marco, un insegnante milanese, accetta un posto in una scuola di un paesino isolato nella Bergamasca. Intanto: alcune descrizioni a me ricordano la Val di Scalve, ma il paese è inventato. Giusto?

Giustissimo! Lo scenario del romanzo è il famoso canyon del Dezzo, uno dei posti più straordinari e suggestivi della provincia di Bergamo (anche se parzialmente in coabitazione con quella di Brescia). Ho immaginato un paese in cima alla valle, quel tipo di borgo che a volte viene chiamato “Ultimo”, proprio perché al di là non c’è più nulla. Questo tipo di ambientazione è interessante anzitutto in sé, per il fascino dei luoghi; ma, soprattutto, perché in un posto così isolato e piccolo tutte le situazioni che si creano diventano più drammatiche. Il tuo nemico, per esempio, non viene fuori dal nulla come accade in città: lo incontri ogni mattina nell’unica strada del paese, quando vai a comprare il pane e il latte. È come in certi documentari della BBC: nella savana, ghepardi, leoni e gazzelle appaiono incredibilmente vicini. Predatori e prede si guardano, in attesa dell’attacco.

Lì si scontrerà non solo con l’ostilità dei valligiani, ma con un gruppo di ragazzini capeggiati da Rudi che “dimostrava più di sedici anni, in quel momento, e al tempo stesso non avrebbe potuto avere un’età diversa. Solo in certi ragazzi di terza media e dei primi anni del liceo mi era capitato di vedere uno sguardo come il suo: impenetrabile, robotico. Spaventoso”. Tra le tante tematiche, la più importante mi sembra il cyber bullismo (spesso strettamente legato alla cattiveria che, come scrivi, si può avere solo da adolescenti): perché hai sentito il bisogno di scriverne?

Perché la nostra epoca è segnata da alcuni cambiamenti definitivi, autentici punti di non ritorno, e uno di questi è il sostituirsi delle tecnologie alle ideologie. Io sono stato ragazzo negli anni ’70 e noi sognavamo ancora di cambiare il mondo. Le nuove tecnologie ci hanno insegnato che alla fin fine quello che interessa alle persone è chiacchierare, comunicare ossessivamente anche su contenuti deboli (o crudeli…). Triste insegnamento, davvero. Ma la novità vera è che per la prima volta nella storia dell’Occidente gli educatori, genitori compresi, hanno a che fare con ragazzi che sono più esperti di loro nell’uso delle tecnologie. Non è mai successo, in passato, che l’esperienza della vecchia generazione contasse così poco agli occhi della nuova, che un dodicenne potesse dire a un quarantenne: “Ma cosa vuoi? Ne so io più di te, tu non capisci niente di queste cose”. Quanto al bullismo, è sempre esistito e la letteratura l’ha descritto spesso; ma la possibilità di usare il mondo virtuale del web per realizzare o celebrare le proprie imprese ha dato ai bulli un potere enorme. Anzitutto si possono rivolgere a una platea teoricamente illimitata e godere di un senso di onnipotenza; in secondo luogo, la loro impressione è sempre che ciò che avviene sul web sia meno grave di quello che viene fatto nel mondo reale, che sia sempre possibile, se si viene accusati, invocare l’attenuante che un’aggressione fisica nel mondo reale è più violenta rispetto a ciò che alle vittime viene inflitto nel mondo virtuale. Questo non è vero! Le conseguenze di umiliazioni e violenze subite sul web ricadono nel mondo reale delle vittime, il dolore e la vergogna che provano sono veri. Infatti il grande messaggio educativo che dovremmo tutti cercare di lanciare è dire ai ragazzi (ma anche a noi stessi) che ormai IL VIRTUALE È REALE. Il virtuale è entrato nella nostra realtà quotidiana al punto di farne parte tanto quanto gli oggetti, le persone, i rapporti del mondo reale.

Nel paesino in cui si svolge “La vita finora” sembra bandita la normalità: c’è il reduce di guerra tormentato dai sensi di colpa, il professore impazzito e ucciso da una vipera gigante, il ragazzino convinto di essere un vampiro e di poter evocare i demoni, la ragazza con la fobia dei contagi…  i pochi personaggi “scarsamente eccentrici” sembrano isolati, in difficoltà. Volevi dire che la normalità è un handicap, o è stato solo l’espediente per scrivere una bella storia?

In realtà, fin dal mio secondo romanzo, La perfezione, uscito nel 1994 e a tutt’oggi mio best seller (fra parentesi, anche in quel romanzo l’ambientazione era fra il lago d’Iseo e la Val di Scalve), ho cercato di fare chiarezza su un certo mito idealizzante che vede nella provincia un luogo in cui tutto è più dolce, più amabile, rispetto alle durezze della città. Io sono addirittura convinto che sia il contrario! In città è possibile nascondersi fra la folla, mentre in un piccolo paese tutti sanno tutto degli altri, la pressione sociale è enorme: vizi, tradimenti, bizzarrie, tutto viene portato alla luce e tutto ciò che appare “anormale” viene condannato. Quindi è naturale che in una storia come questa anomalie ed eccentricità siano descritte: è perché sono più visibili rispetto all’anonimato che viene garantito dalla metropoli.

Il contrasto tra i genitori di Marco (maneschi e autoritari) e quelli di Rudi (sempre pronti a difendere il figlio, anche quando ha torto) rispecchia quello tra le due epoche in cui sono cresciuti. Lei dice che è crollata l’alleanza tra adulti: non c’è più – in sostanza – l’alleanza genitori/insegnanti: sembra che i figli non possano più sbagliare, e i brutti voti siano sempre e solo colpa dei docenti… da quello che combinano Rudi e i suoi amici nel libro, direi che lo vedi come un grosso problema della società moderna. È un fallimento del nostro sistema scolastico o più generale?

Questa è l’altra grande e disastrosa novità nel nostro rapporto con le giovani generazioni. L’adulto a casa fa sempre più fatica a sentirsi alleato dell’adulto a scuola, a vedere in lui il prolungamento della propria autorità e del proprio compito educativo nei confronti del ragazzo. Prima l’identificazione avveniva per appartenenza generazionale: l’adulto dava credito all’altro adulto. Ora avviene per clan, per possesso: MIO figlio, MIA moglie, la MIA casa, la MIA auto, nessuno si deve permettere non solo di toccarli ma neppure di criticarli! Il genitore sente il rimprovero fatto a suo figlio come un rimprovero fatto a se stesso, che ferisce il suo narcisismo, e reagisce con rabbia negando addirittura l’evidenza. La sintesi di tutto questo si trova proprio nelle parole di Rudi, il geniale sedicenne che è a capo del gruppo dei bulli, quando schernisce l’insegnante dicendogli: “Mio padre mi difenderà sempre, perché se uno tocca me è come se gli rigasse l’auto”. In questa frase, che è la più citata dalla critica, troviamo sia l’ostentazione dell’impunità da parte di Rudi, sia la sua lucida amarezza nel riconoscere che il padre non lo difende per amore, ma per possesso, perché il figlio è suo come è sua l’automobile.

In un altro libro ha descritto “il dramma generazionale per cui tutti quelli nati prima degli anni Settanta avevano visto cambiare il mondo e si erano ritrovati a vagare in un universo digitale, offesi e smarriti, chiedendosi perché, nella storia dell’umanità, proprio loro dovevano essere i primi a non avere niente da insegnare ai figli smanettoni”. È anche per quello che i genitori di Rudi e degli altri membri della banda conoscono pochissimo i propri figli, non hanno nessuna idea di quello che fanno?

Certo, è come dicevo sopra. Le nostre case si sono riempite di genitori che scrutano con diffidenza lo sguardo dei figli ipnotizzato dal monitor del portatile o dallo schermo dello smartphone, le loro dita che corrono veloci sulle tastiere… cosa staranno guardando, con chi staranno parlando? Cosa stanno facendo VERAMENTE? Prima la vita era un sentiero fatto di passaggi obbligati che il genitore conosceva benissimo perché era lo stesso sentiero che aveva già percorso lui: i turbamenti dell’adolescenza, l’amicizia data a volte alle persone sbagliate, gli amori, i sogni e i dubbi sul proprio futuro… Ora lo scenario è cambiato, è un paesaggio almeno in parte sconosciuto, dove ci sentiamo molto meno competenti, meno in grado di giudicare e di consigliare, di correggere.

Poche righe sopra ha detto che “la loro impressione (dei bulli del web n.d.r.) è che ciò che avviene sul web sia meno grave di quello che viene fatto nel mondo reale”. Qualche giorno fa ne ha avuto una triste conferma: presidente del premio letterario “Gianfrancesco Straparola”, promosso dal comune di Caravaggio, ha denunciato di avere ricevuto minacce (addirittura di morte) su Facebook, da uno dei concorrenti estromessi dalla cinquina dei finalisti. Cos’è successo?

Il premio Straparola di Caravaggio, per racconti inediti, si è conquistato una solida fama di concorso letterario serio e oltre a tutto con un montepremi piuttosto ricco. Io ne sono presidente dal 2000, ma mai come quest’anno ho ricevuto lamentele da parte di concorrenti che non erano entrati nella cinquina dei finalisti. Si sa che i social hanno accorciato le distanze: infatti su Facebook sono stato bersagliato di messaggi pubblici e privati che mi chiedevano quasi di giustificare me stesso e gli altri giurati per aver osato non inserire fra i finalisti questo o quell’aspirante autore. Uno di questi ha davvero perso la testa e ha pubblicato sulla sua e anche sulla mia pagina pubblica una raffica di insulti (alcuni molto fantasiosi, che andavano dal pedofilo all’evasore fiscale) culminata nella minaccia di accoltellarmi. Inutile dire che quando dal virtuale si è passati al mondo reale, cioè quando ho fatto presente a questa persona che avevo fotografato tutto quello che aveva scritto e che ero pronto a denunciarla, l’aggressione è finita. Ennesima prova di quanto sia diventato difficile accettare la frustrazione, in un mondo in cui chiunque può autoproclamarsi su Facebook “poeta” o “scrittore” (o anche “filosofo” o “santo”, se è per questo) e alimentare la propria mitomania con un pugno di like raccattati fra persone che si aspettano di essere ricambiate, in un circolo di autolegittimazione pseudoartistica autoreferenziale che non significa niente.

Lei è nato a Castro, ma per poter campare di scrittura (so che sto semplificando la sua vita, ma lo spazio è quello che è) si è dovuto trasferire a Milano. Il protagonista del suo romanzo, invece, è nato a Milano e, per ritrovare se stesso, si deve spostare in un paesino sperduto della provincia bergamasca. C’è un filo che unisce le due storie?

Io non ho mai smesso di tornare al mio caro lago, dove ho conservato la casa che fu di mia nonna. Ogni anno passo circa uno o due mesi a Castro, ritrovando il mondo in cui ho vissuto i primi passi e alcuni vecchi amici, i più vecchi della mia vita – fra cui il più caro di tutti è l’attuale sindaco del paese, Mariano Foresti. Sono una specie di anfibio: vivo nella città più metropolitana d’Italia, Milano, con le sue sfide e le sue certezze, ma anche in questo paese di milleseicento anime che si affaccia su questo paesaggio abissale, assoluto: la grande distesa d’acqua scura del lago, le montagne che lo circondano. E mi confronto con queste due realtà umane così diverse. Questo è un fantastico stimolo narrativo. Sai, Henry James, l’inventore del romanzo moderno, diceva che lui nei suoi libri in fondo non faceva che raccontare come vive un americano in Inghilterra e come vive un inglese in America. Io, più modestamente, ho provato (non solo in questo libro ma anche in qualche libro precedente) a mettere un cittadino in un piccolo paese, o il nativo di un piccolo paese in una grande città, e vedere cosa ne veniva fuori.

Dirige una scuola di scrittura: in un periodo in cui la nostra lingua viene continuamente massacrata sui social. Parrebbe una situazione disastrosa, eppure ogni anno, in Italia, si scoprono nuovi talenti del narrare…

Più che nuovi talenti, quello che si scopre è che le persone hanno un bisogno enorme di esprimersi narrativamente, un bisogno che ormai ha assunto le dimensioni di un fenomeno sociale. Pensa che dalla mia scuola, che con orgoglio posso dire è la migliore d’Italia per i risultati ottenuti (cinquanta allievi hanno pubblicato con tutti i più grandi editori, da Mondadori a Rizzoli, da Feltrinelli a Guanda…), sono passati in vent’anni più di settecento allievi, e ogni anno se ne iscrivono di nuovi, tanto che non volendo fare classi troppo affollate sono costretto a metterne molti in lista d’attesa. Chi non si accontenta della comunicazione debole e spesso frivola del social, dove al massimo puoi scrivere di piccole cose personali, cerca di impadronirsi della tecnica per raccontare davvero una storia. Che è un modo per dire: uscire da se stessi, provare a vedere il mondo attraverso gli occhi di personaggi che non sono te, sono qualcosa di diverso da te.

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