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L'intervista

I 90 anni di Silvio Garattini: “Aiuti ai giovani ricercatori, sì ai vaccini, no agli inutili integratori”

Bergamonews ha intervistato lo scienziato bergamasco chiedendogli un commento sulla ricerca in Italia, alcuni consigli e un parere su temi di attualità come i vaccini e il fine vita.

Silvio Garattini compie novant’anni. Lo scienziato, nato a Bergamo il 12 novembre 1928, è uno dei massimi esponenti del mondo della ricerca: ha una lunga carriera alle spalle, è stato membro di numerosi organismi nazionali e internazionali e ha ricevuto diverse onorificenze. Ricercatore scientifico in farmacologia, medico e docente in chemioterpia e farmacologia, è presidente e fondatore dell’istituto “Mario Negri”.
Augurandogli buon compleanno, lo abbiamo intervistato chiedendogli un commento sulla ricerca in Italia, alcuni consigli e un parere su temi di attualità come i vaccini e il fine vita.

Festeggia novant’anni. Che regalo vorrebbe ricevere dalla scienza?
Mi piacerebbe ricevere il regalo più importante che ci sia, cioè che tutte le malattie scomparissero. Purtroppo questo non è possibile ed è necessario che ognuno abbia un’idea chiara di cosa rappresenti la scienza, cioè un progresso che è continuo ma avviene a piccoli passi e dipende molto dal numero di persone che vi si dedicano e dalle risorse che sono disponibili affinchè possano portare avanti il loro lavoro. In realtà, quindi, il regalo migliore sarebbe certamente sapere che il governo si stia occupando con grande attenzione dei problemi della ricerca, per sostenerla e per far sì che l’Italia si allinei con quello che fanno le altre nazioni, cioè consideri la ricerca uno degli aspetti fondamentali per il progresso del Paese e, nel nostro caso, per migliorare la salute dei singoli e della comunità.

Purtroppo l’Italia è cronicamente fanalino di coda negli investimenti in ricerca. Quanto la preoccupa questa mancanza di sensibilità?
Molto, perché siamo sempre meno in grado di partecipare agli sviluppi importanti che si verificano su scala globale. Nel campo biomedico abbiamo la metà dei ricercatori rispetto alla media europea considerando il numero per milione di abitanti. La Germania destina il 3,5% del suo prodotto interno lordo, mentre in Italia gli investimenti si limitano a malapena attorno all’1,2% del nostro P.I.L., che è molto inferiore a quello tedesco.
È un problema grave perché, in realtà, se consideriamo il lavoro dei singoli ricercatori, quelli italiani sono produttivi come quelli dei migliori Paesi ma se ci concentriamo sul nostro apporto globale ci troviamo al 35esimo posto perché non conta solo la capacità del singolo ma quella del complesso. Per realizzare progetti importanti è necessario avere masse critiche di ricercatori, cioè gruppi che lavorino insieme e questo in Italia non è sostanzialmente possibile perché mancano le risorse. E poi c’è un altro problema.

Ci spieghi
L’eccesso di burocrazia. Per esempio, molti progetti di ricerca presentati nel 2016 sono stati approvati ma non sono stati ancora formalizzati e siamo ormai alla fine del 2018. Ma non è solamente un problema di lungaggini: è anche una questione di passaggi da espletare, come nel caso dell’autorizzazione alla sperimentazione animale. Prima di poter svolgere un esperimento bisogna attendere mesi ed è anomalo rispetto al quadro europeo. Per ottenere l’approvazione a condurre esperimenti sull’uomo è sufficiente presentare il protocollo e se il comitato etico esprime parere favorevole si può procedere, mentre per effettuare un esperimento sui topi si deve presentare il protocollo al comitato etico per gli animali, al comitato per il benessere animale, all’istituto superiore di sanità e poi se il ministero della salute dà l’autorizzazione si può continuare. Quindi, è molto più facile sperimentare sull’uomo che sui topi ed è assurdo: non accade in nessun altro Paese. Succede perché in Italia la ricerca non è considerata adeguatamente o viene ritenuta un’attività accessoria e non una parte fondamentale per il futuro.

E quanto è importante la prevenzione?
Mi sto rendendo sempre più conto che la prevenzione dovrebbe essere una delle attività fondamentali della medicina perché permette di evitare le malattie e tutto ciò che comportano sia in termini di disagio personale sia di costi per la sanità, perché siamo in un sistema in cui c’è il servizio sanitario nazionale. Oltre il 50% delle malattie è prevenibile, cioè non piove dal cielo: siamo noi ad autoinfliggercele attraverso i nostri cattivi comportamenti e sbagliate abitudini di vita.
Se pensiamo che la metà delle malattie croniche, inclusi i tumori, si possono prevenire, ci rendiamo conto che non c’è terapia che abbia un effetto importante come quello della prevenzione. Quindi, prevenire dovrebbe essere una delle nostre preoccupazioni principali, ma purtroppo non succede. In parte perché c’è un grande mercato della medicina la cui influenza verrebbe ridimensionata se venisse applicata su larga scala la prevenzione.

Cosa bisognerebbe fare?
Prevenire significa per esempio non fumare, non eccedere nel consumo di alcol e avere un’alimentazione corretta e senza eccessi, non aumentare il proprio peso, fare movimento, evitare la sedentarietà, avere un certo numero di ore di sonno e svolgere attività intellettuale… sono cose che tutti sappiamo ma poi di fatto non pratichiamo, da un lato perché non siamo abituati e non abbiamo stimoli o incentivi a farlo, dall’altro perchè abbiamo un mercato che ci orienta in un senso completamente contrario. Penso alla propaganda dell’alcol, dei vini e dei liquori che sicuramente non è a favore di un loro moderato consumo. Analogamente, il fatto che lo Stato introiti 13 miliardi all’anno dalla vendita delle sigarette chiaramente per lui non rappresenta un incentivo a fare qualcosa affinchè diminuisca il numero dei fumatori.
Ma c’è un altro aspetto: non possiamo abituare i bambini ad apprezzare i vegetali e la frutta se vengono continuamente bombardati dalla pubblicità in tv che li spinge verso ogni tipo di merendine o altri tipi di cibo. Non ultimo, poi, va considerato il problema dell’ambiente.

In che senso?
La prevenzione non si realizza solo a livello individuale, ma dipende anche dalla collettività. Oggi abbiamo un tasso di inquinamento che non è favorevole al mantenimento della salute. C’è molto da fare e purtroppo il problema della prevenzione non è considerato perché si prospetta nel futuro ma, come avviene per tutte le cose, se non si comincia non si arriverà mai all’obiettivo.
Non dimentichiamo che l’Italia è uno dei Paesi dove la popolazione è in media più longeva (per gli uomini 80 anni e per le donne quasi 85) ma il periodo di vita sana è inferiore rispetto a molte altre realtà europee a causa delle malattie. Naturalmente, questo dipende dal fatto che non ci occupiamo sufficientemente della prevenzione. È un problema cultuale: bisognerebbe cominciare a parlare dell’importanza della prevenzione sin dall’asilo e sviluppare l’argomento nelle scuole, nelle famiglie e nella società civile, ma ci vuole l’impegno di tutti e soprattutto da parte dei governi.

Diverse volte lei ha parlato dell’inutilità di alcuni farmaci. Cosa intende precisamente?
Alla fonte, uno dei problemi è rappresentato dalla legislazione europea che, per l’approvazione di un nuovo farmaco, prevede che debba rispettare tre caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Sono criteri che vanno bene ma non bastano: attenendosi solamente a questi parametri possono essere approvati anche farmaci meno utili, quindi peggiori, di quelli già esistenti. Bisognerebbe cambiare la legislazione prevedendo un altro criterio, cioè quello del valore terapeutico aggiunto: se venisse considerato, la maggior parte dei farmaci non verrebbe approvata. A fronte a questa situazione, avremmo una barriera, che sarebbe l’ente che si occupa di farmaci, l’Aifa, che ha il dovere di mettere in commercio tutti i medicinali approvati dall’Unione europea, ma anche di scegliere quelli che vengono rimborsati dal servizio sanitario nazionale. Invece mette un po’ di tutto e questo ha portato al fatto che abbiamo un prontuario terapeutico nazionale che non viene riformato da 25 anni: l’ultima modifica risale al 1993.

Cosa comporta?
Abbiamo accumulato un mucchio di farmaci doppi, analoghi ed equivalenti: bisognerebbe fare una selezione scegliendo quelli che siano veramente utili per il paziente e fra questi optare per quelli che costano meno a parità di attività. Poi c’è tutto un mercato di farmaci fuori dal sistema sanitario nazionale per i quali gli italiani spendono molti soldi per esempio per acquistare gli integratori alimentari: l’anno scorso oltre 3 miliardi per prodotti che non hanno nessuna efficacia.

Cioè?
Contengono vitamine e micronutrienti che ritroviamo in un’alimentazione normale. Quindi non ce n’è bisogno anche se la pubblicità induce a ritenere che migliorino la salute. Per la prevenzione bisogna adottare un’alimentazione equilibrata mangiando un po’ di tutto in modo che il nostro organismo possa avere ciò di cui ha bisogno. Oggi c’è un’altra ragione: viviamo in un mondo abbastanza contaminato e quindi consumando cibi diversi non accumuliamo inquinanti dello stesso tipo. La dieta mediterranea è molto varia, implica tanti tipi di verdure e di frutta, pesce, carni bianche, uova, formaggi, olio d’oliva e in parte anche carni rosse, per le quali vale sempre la stessa indicazione, ossia va mangiata senza eccessi.

Silvio Garattini

Nel corso della sua carriera ha lavorato insieme a tanti grandi ricercatori, da Rita Levi Montalcini a molti altri esperti. Chi di loro ricorda con più affetto?
Sono molti, cominciando dal mio maestro, il professor Emilio Trabucchi, che mi ha introdotto nella ricerca. Poi ce ne sono tantissimi altri, sempre animati da umiltà e semplicità. Noi ricercatori più esperti, però, riceviamo molto anche dai giovani: la freschezza delle loro idee è molto utile.

E lei farebbe ancora il ricercatore?
Certamente, è una delle professioni più belle che si possano immaginare perchè unisce la possibilità di essere a contatto con il nuovo e di fare qualcosa di utile per la salute, quindi è un piacere prima ancora che un tipo di lavoro. È un privilegio straordinario ed è un modo per aiutare gli altri: da queste premesse possiamo sviluppare alcuni punti in comune con la religione.

Quali sono?
Religione e scienza fondamentalmente sono inconciliabili perchè la prima si basa sulla fede e la seconda sulla misura delle cose, ma c’è la possibilità di sinergismo tra questi due settori. In questo periodo ritengo che sia possibile: per esempio entrambe si interessano dell’ambiente, di cambiare le disuguaglianze e hanno un denominatore comune: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

E se fosse un giovane ricercatore rimarrebbe in Italia o sarebbe un cervello in fuga?
Per la mia mentalità non me ne andrei. C’è stata la tentazione, però sono rimasto perché penso che sia importante coltivare rapporti internazionali e conoscere le realtà dei diversi Paesi, ma poi bisogna far sì che la nostra attività vada a vantaggio della popolazione della nazione dove viviamo, ci siamo formati e siamo cresciuti.

Cosa le piacerebbe scoprire?
Alla mia età si possono fare programmi ma sono a breve termine. Ora il mio compito è aiutare i giovani ricercatori ad andare avanti. E si può imparare molto da loro: il ricercatore deve essere molto umile perchè sa poco di qualcosa che dovrebbe conoscere bene. Oggi ci sono ottimi professionisti, ma devono esser messi nelle condizioni per esprimere al meglio le loro capacità.

Ha fondato l’istituto Mario Negri. Sono possibili nuove collaborazioni col Kilometro Rosso?
Ci siamo spostati dal Conventino alla nostra nuova sede proprio perchè ci auguriamo che diventi centro di una grande varietà di istituzioni scientifiche, per stabilire collaborazioni e creare opportunità di sinergismo.

Istituto Mario Negri di Bergamo

Parlando di attualità, cosa pensa dei vaccini?
Sono i farmaci più efficaci che si possano immaginare perchè agiscono su quasi tutte le persone. Hanno il vantaggio di avere costi relativamente contenuti e bastano poche somministrazioni per ottenere risultati a lunga scadenza. Hanno sconfitto numerose malattie che avrebbero portato alla morte o sarebbero state disabilitanti, come la poliomielite che prima colpiva quasi 4mila bambini in Italia. I giovani genitori non hanno mai visto queste malattie e pensano che vaccinare sia inutile ma in realtà senza i vaccini queste malattie tornerebbero. Tutto nasce dal fatto che oggi a scuola non viene insegnata la scienza, la sua metodologia e i suoi principi, ma alcune discipline scientifiche: le persone crescono con una cultura umanistica e artistica, che va bene, ma per certi argomenti come i vaccini è necessario adottare principi scientifici.

Ma i vaccini hanno dei rischi?
Certamente, come tutte le cose: la scienza mostra che ogni attività che compiamo ha benefici e rischi. Nel caso dei vaccini, però, i rischi sono molto inferiori rispetto a tutte le persone che hanno salvato nel corso dei tempi.

Altro tema di attualità è il fine-vita. Da Eluana Englaro a dj Fabo, quando pensa che la scienza si debba fermare per lasciar fare alla natura il suo corso?
Non è un problema scientifico, è la società che deve decidere cosa vuole fare. Ritengo che debba essere rispettata la libertà di scelta dell’individuo. Come ricercatore, credo che siamo tutti contro l’accanimento terapeutico, cioè all’effettuare trattamenti che dall’inizio sappiamo non serviranno.

E che rapporto ha con la fede?
Sono di cultura cattolica, mi sono formato all’oratorio di Borgo Palazzo e sono molto grato a chi mi ha accompagnato nella mia giovinezza. Per tanti anni ho partecipato all’Azione cattolica e c’è un’impronta che ti rimane, ma questi valori convivono tranquillamente con l’impegno di ricercatore.

Lei è molto legato a Bergamo?
Si, ho sempre avuto un forte senso delle radici, non ho mai lasciato Bergamo e sono orgoglioso di essere bergamasco. Per questo ho voluto che ci fosse sul nostro territorio la sede dell’istituto Mario Negri: nella nostra città non c’era un organismo che si occupava di ricerca scientifica in campo medico.

E qual è stata la sua soddisfazione più grande?
Il momento in cui ho appreso dal testamento di Mario Negri che sarebbe stato possibile realizzare un’istituzione indipendente di ricerca a Bergamo, concretizzando un’idea che stavo perseguendo da tempo.

Per concludere, una curiosità: lei di solito indossa un maglioncino color bianco. È una scelta di look ben precisa?
Lo faccio per praticità. In questo modo, non porto cravatte e mia moglie non stira le camicie. Non è frutto di nessun voto nè della presenza di difetti sul collo da nascondere: semplicemente, il maglioncino è più comodo da indossare.

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