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L'intervista

Vincenzo Incenzo, il nuovo album “Credo” e la missione di dare speranza ai giovani

“Credo” è un disco di poesia ma pure di resistenza, dove si fondono in armonia l'eleganza e la voglia di raccontare il nostro tempo, fatto di finta partecipazione, appiattimento del pensiero e marcia ipocrisia

L’arte dell’attesa sembra non andar più di moda. Sembra, perché in realtà c’è ancora chi ha la forza e il coraggio di saper attendere il proprio momento per emergere. È quello che è accaduto a Vincenzo Incenzo, cantautore romano, che dopo una lunga militanza al servizio dei più grandi artisti del nostro panorama musicale, ri-esordisce (perché in realtà la sua prima apparizione risale ai tempi del Folkstudio, negli anni ’70) con un album veramente profondo e semplice assieme, dal titolo coraggioso: “Credo”.

Un progetto che ha visto la luce grazie alla grande passione e generosità di Renato Zero che lo ha prodotto e nel disco fa un grande regalo a Vincenzo e agli amanti della musica italiana, cantando una superba versione di “Cinque giorni”, portata al successo da Michele Zarrillo, uno di quei nomi importanti con i quali ha collaborato in questi anni. Per chi non è più un giovane di primo pelo è impossibile dimenticare la magia di quel brano, come pure de “L’elefante e la farfalla” o “L’acrobata” (anch’esse contenute nell’album con delle versioni più intimistiche e vicine alle loro origini). Canzoni che personalmente suscitavano nel cuore una tale meraviglia e fascino da domandarsi chi le avesse pensate. Poi è venuto il tempo di Lucio Dalla, della Pfm e da un ventennio di Renato Zero. Senza trascurare i romanzi, il teatro e il musical (tutti abbiamo ammirato l’opera Romeo e Giulietta. Ama e Cambia il mondo che ha tuttora un successo senza paragoni).

“Credo” è un disco di poesia ma pure di resistenza, dove si fondono in armonia l’eleganza e la voglia di raccontare il nostro tempo, fatto di finta partecipazione, appiattimento del pensiero e marcia ipocrisia. Tredici tracce di sana ribellione e quel pizzico di incoscienza che rende speciali le opere più impensate o desiderate. Così trova spazio il basso di una giovane musicista, Nicole Saviozzi, lo stile rappeggiante di “Pensiero Unico” dove è accompagnato dalla magnifica voce di Minji Kim e il contributo sempre intenso e piacevole dei Neri per Caso. Su tutto però la penna delicata, arrabbiata e vibrante di Incenzo, capace di regalare emozioni e suscitare domande. Ascoltate “Il primo giorno dell’estate” o “Dal paese reale” e capirete che intendo.

L’ho incontrato alla Feltrinelli di Piazza Piemonte a Milano, in occasione della presentazione e del firmacopie organizzato. L’incontro è stato moderato da Malcom Pagani con l’intervento del maestro Danilo Madonia (arrangiatore) e Maurizio Parafioriti (tecnico del suono). Dopo la serata è stato così gentile e disponibile da concedermi un’intervista per noi di BgY.

Partiamo dal titolo: quanto coraggio ci vuole, in un tempo come questo, fatto di disillusioni e speranze gettate al vento a dichiarare: “Credo”?

“Ci vuole un po di incoscienza. L’impresa di fermare il tempo appare sempre più improba. Il mio intento è comunque quello, tenendo conto sia dei linguaggi musicali che di scrittura. Credo che le canzoni possano essere un rompighiaccio in questo tempo, nonostante questo cortocircuito abbia distorto un po la percezione dell’arte oggi. E mi piacerebbe che i giovani oggi si mettessero in gioco di più, valorizzando i loro messaggi.”

Il singolo che ha lanciato il tuo progetto trae spunto da una forte campagna social, dove la finta indignazione ha preso il posto della piazza. Come può un giovane, disorientato da questo can can, far sentire la propria voce, ad emergere col proprio talento?

“Non è facile. Mi rendo conto che oggi contano troppo altri fattori, diciamo mediatici, per far emergere il vero talento. C’è molta dispersione. Io consiglio di tener duro nelle proprie idee e convinzioni, prima o poi qualcuno disposto ad investire sul talento ci sarà. Io sono un esempio, perché questo disco lo volevo fare a 20 anni. Sono convinto che questo sistema prima o poi esplode o implode su se stesso perché è saturo, c’è bisogno di autori, di scrittori. Qualcosa si muoverà. È un fatto ciclico, prima o poi tornerà a splendere la meritocrazia.”

Nel tuo album, dove la magia della poesia e il coraggio della denuncia si fondono in armonia, sembra davvero di respirare quel “duemilaniente”, dove “la coscienza è sepolta nel cemento”. Cosa è significato per te camminare dentro ad un epoca diversa da questa? Cosa ti ha insegnato?

“Io ho fatto in tempo a prendere la coda di quel tempo. Il grande insegnamento è venuto da tutti quegli artisti con il quale ho potuto collaborare. L’ho vissuto con leggerezza ma oggi sarebbe difficile. A volte mi stropiccio gli occhi per aver avuto la fortuna di poter dialogare con Lucio Dalla, la Pfm, Renato Zero…una grande esperienza che ti fa crescere sul campo. Tutto ciò l’ho portato nel disco, mi sentivo in dovere verso chi mi ha accompagnato e aiutato nella crescita. Dopodiché ci vuole anche un pizzico di incoscienza per fare un lavoro del genere, che è sicuramente pensato ma sotto la scorta dell’esperienza vissuta.”

Il Novecento è stato il secolo nel quale l’uomo è stato seguace e vittima della “banalità del male”. Avverti anche tu che la paura, le diffidenze, il terrore verso il prossimo possono trasformare questo nel secolo della “banalizzazione dell’amore”, del “Pensiero Unico”?

“Si, siamo stati educati alla paura. Il più grande pericolo è quello di pensare di sentirsi al sicuro dentro la comodità della propria zona di comfort. Uscire invece è occasione di incontro, di scambio, di un arricchimento necessario per le nostre esistenze. La parola d’ordine oggi pare essere normalizzazione, siamo ai livelli di “1984” di Orwell, anche se non vogliamo ammetterlo, un modo di ribellarsi che passa per i like e lì muore. Se c’è una variabile è quella dell’arte perché per fortuna non ci sono algoritmi perfetti dentro cui doversi incasellare.”

Per un giovane Zerofolle come me Renato rappresenta qualcosa di difficilmente descrivibile, eppure non è così semplice potergli parlare, incontrare come te oggi. Quanto è importante il rapporto tra un artista e la gente? Quanto lo è per te, vista la tua cordialità e disponibilità?

“Per me è una ricchezza ed un piacere. Sono io che ringrazio la gente perché mi da il termometro di ciò che sto facendo. Non capisco l’artista che si scolla. Ho bisogno di chiedere alla gente cosa prova, cosa sente ascoltando le mie canzoni. E poi perché ho avuto la fortuna di vivere in un tempo dove potevi suonare sia con uno sconosciuto sia con De Gregori. Lo scambio ci deve essere sempre. A me piace essere presente anche nelle scuole, dove faccio degli stage. Mi piace il contatto, mi serve. Credo sia la benzina per questo lavoro. La comunicazione ci dev’essere. Ho anche semplificato il linguaggio per poter essere più vicino alla gente, nella semplicità e nella profondità, perché mi interessa comunicare.”

Recentemente hai detto che se Dante fosse nato oggi sarebbe un rapper. Che speranza hanno allora tutti quelli che non lo sono e vogliono far poesia?

“La frase è stata un po travisata. Volevo dire che da mago della metrica si sarebbe trovato a suo agio con le stringhe dei rapper. E poi era un polemico, perché dietro alla sua poesia c’era sempre una certa rabbia contro il potere del suo tempo. Comunque il futuro sarà di chi ha le chiavi della parola.”

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