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Musica

Il discomane

Little Steven, il live più bello dell’anno (e forse del decennio)

Ma il disco del mese, per il nostro Brother Giober è "Carolina Confessions" della Marcus King Band. E poi tante pillole per divertirsi ad ascoltare bella musica

DISCO DEL MESE

Artista: Marcus King Band
Titolo: Carolina Confessions
Voto: ****

Ho un account su Facebook che però non frequento molto. Qualche volta “posto” un filmato musicale, così per divertimento o perché covo l’illusione che qualcuno ne abbia interesse e mi ringrazi per avergli fatto conoscere un artista nuovo. Non succede mai… o quasi. Però, a volte, qualche like me lo porto a casa, non molti, solo quelli degli amici più cari.

Ultimamente mi è capitato di pubblicare qualche filmato della Marcus King Band senza mai raccogliere alcun riscontro. Segno probabilmente che Marcus King è sconosciuto, e quindi non raccoglie alcun interesse, perché invece bravo è bravo, anzi bravissimo.

Carolina Confessions è il terzo album di questa band del sud degli States che prende il nome dal suo leader, chitarrista, cantante ed autore, ed è forse il più bel disco fino ad oggi pubblicato.

La MKB fa una musica che si ispira in modo evidente alla Allman Brothers band, ai Little Feat e in epoca più recente alla Tedeschi Trucks band, anche se a mio parere il riferimento più prossimo è quello ad Anderson East, cantautore americano che qualche anno fa ha pubblicato un album meraviglioso dal titolo Delilah, che ha avuto numerosissimi e importanti riconoscimenti e da me considerato ai tempi, su queste pagine, il miglior album dell’anno. Merito degli arrangiamenti e quindi del produttore Dave Cobb, oggi il nome più gettonato nell’ambito della musica “americana” e di una capacità della MKB di miscelare soul, blues e rock ottenendo una sintesi sempre equilibrata ed entusiasmante.

Quindi se siete amanti del vecchio suono della Stax, se vi piacciono le sezioni fiati questo è il disco che fa per voi, diversamente se siete appassionati di prog o di “alternativa” probabilmente il disco susciterà in voi scarse emozioni.

Fondamentale della riuscita è la voce del leader, una voce unica, vetrosa, graffiante che potrà ricordare a volte quella di Joe Cocker, altre quella di Southside Johnny e altre volte ancora quella di Rod Steawart, ma sempre comunque perfettamente adatta al genere. Tuttavia per fare una buona canzone non basta la cornice, non sono sufficienti arrangiamenti sontuosi o interpretazioni impeccabili, servono qualità compositive importanti, serve capacità di cogliere la melodia giusta, in poche parole serve l’ispirazione e qui ve ne è in quantità industriale.

Carolina Confessions è un vero e proprio prodotto musicale, è un disco suonato benissimo da una band con i controfiocchi che si sente che ha girato il mondo affinando sera dopo sera le conoscenze tecniche, l’affiatamento.

Carolina Confessions tratta temi dolorosi come quello del distacco, della perdita, nonostante che gli arrangiamenti musicali, sempre ricchi e corposi, , facciano pensare esattamente l’opposto. Così in Homesick, forse la più bella traccia della raccolta, le chitarre taglienti si adagiano sul tappeto sonoro della sezione fiati e il canto del leader disegna una melodia che è difficile togliersi dalla testa.

marcus king band

Goodbye Carolina narra di un amico suicida ed è una ballata introdotta dalle note di una chitarra acustica, il modo di cantare è rilassato e chiama alla memoria quello di numerosissimi altri cantautori americani . La melodia è piana ed ampia. Se amate la musica country questo è il vostro mondo, almeno fino a che la band entra dirompente e la chitarra elettrica diventa protagonista.

How long, una composizione scritta da Dan Auerbach e Pat McLaughlin (se lo trovate impossessatevi di Wind it on Up, il suo disco più bello) benché tratti il tema della fine di una relazione, è allegra e scanzonata con un ritornello contagioso.

Lo stesso tema della separazione è al centro dell’iniziale Where I’m Headed dove colpisce l’interpretazione del leader e l’uso che della voce viene fatto. Un brano bello e denso, con un arrangiamento dei fiati che vi riporterà alla mente i dischi di Otis Redding e della Stax in genere.

Ad essere sincero faccio fatica a trovare un brano che non mi abbia entusiasmato perché anche 8 A.M. è un lentaccio “strappamutande” d’altri tempi, mentre Autumn Rains è la dimostrazione che Marcus King conosce a memoria il (miglior repertorio) della Allman Brothers band e di tutto il rock sudista in genere.

Un disco bellissimo che vale la pena comprare e consumare.

La canzone migliore: Homesik

Se ti e piaciuto ascolta anche:
Pat McLaughlin: Wind it on Up
Anderson East: Delilah
Nathaniel Rateliff & the night Sweats: Live at Red Rocks

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DISCO DELL’ANNO (PER ORA)

Artista: Little Steven and the Disciples of Soul
Titolo: Soulfire Live
Voto: ****1/2

Forse bisognerebbe chiedergli scusa per averlo considerato il fratellino un po’ sfigato del Boss, una sorta di macchietta, una parodia, per averlo considerato non un grande cantante e un appena sufficiente chitarrista. Certo le debolezze del suo carattere come la bandana, per nascondere una calvizie molto più che incipiente, le smorfie e l’eccessiva teatralità sul palco non hanno contribuito alla sua autorevolezza, così come non lo ha aiutato la scelta di diradare sempre più nel tempo le uscite discografiche a favore di una carriera cinematografica che lo ha reso più celebre di prima, ma forse meno credibile.

Ma che Little Steven sia stato e sia ancora molto di più di quello che potrebbe sembrare ad una prima superficiale analisi lo dimostra la circostanza che Springsteen gli abbia affidato la produzione di The River (insieme a Landau e allo stesso Boss) e che ad un certo punto della sua carriera dopo una brusca e per niente amichevole interruzione lo abbia rivoluto nella E street band, all’interno della quale trova ancor oggi un posto di primo piano come lo aveva prima “Big” Clemons.

Vero anche che tutte queste potenzialità Little Steven, almeno discograficamente, non le ha mai messe in grande mostra perché nessun disco del passato può ritenersi un capolavoro. Buone produzioni in alcuni casi ma nulla di più. Poi qualche mese fa l’uscita quasi a sorpresa di Soulfire, dopo anni di silenzio, ha convinto molti che Little Steven avesse ancora qualcosa da dire.

Dopo quel disco Little Steven è partito per un tour che ha toccato anche la nostra penisola: le cronache dei concerti sono state quasi tutte entusiastiche (ricordo quella di Carlo Massarini su Facebook, che ne ha scritto benissimo), anche se la risposta del pubblico è stata tutto sommato freddina; il popolo del Boss è disposto a commuoversi anche delle vittorie negli sport equestri della figlia, ma è meno disposto a seguire le gesta musicali del suo chitarrista.

Probabilmente a Little Steven di tutto questo è importato poco; quello che gli interessava era riunire i suoi “discepoli dell’anima” e dimostrare ai fans che era in grado di sostenere uno show che se non è proprio pari a quello del Boss poco veramente gli manca

A conclusione e a celebrazione del tour qualche mese fa è uscito questo enciclopedico live, un disco di altri tempi che richiama alla memoria alcune produzioni mitiche degli anni ’70 quando la pubblicazione di un disco dal vivo rappresentava la summa della carriera di un artista e quella su cui concentrare tutte le energie.

Soulfire live è compendio di tutto quanto ha a che vedere con la musica soul, il rhythm’n’blues, il rock e trae la propria fonte di ispirazione da Springsteen, dal suono Stax, da Southside Johnny e da tutto quel mondo lì. Di suo Little Steven ci mette la sua cultura, la sua conoscenza, la sua esperienza che gli permettono di amalgamare i suoni, di renderli più accessibili, riuscendo a mantenere però una genuinità che dà ulteriore forza al lavoro.

Soulfire genera le medesime emozioni dei dischi di un tempo, quando tagliavi il cellophane, aprivi la busta che quasi sempre era formata da una doppia facciata e posavi il disco sul piatto ben sapendo che quello che avresti ascoltato sarebbe stato per te una sorpresa.

Soulfire non è un disco di sfumature, non è un disco di colori pastello, è un disco torrenziale dove il particolare è sacrificato ad un wall of sound di spectoriana memoria. Soulfire è un disco per prima cosa divertente, fatto di ritmo, di sudore, di una sezione fiati che è tanto anacronistica quanto entusiasmante, di chitarre che inseguono note sentite mille volte ma che ancora una volta prendono l’ascoltatore perché più furbe di altre, di cori che non si sentivano più dai “cani pazzi” di Joe Cocker, di tastiere che non si vergognano di essere ruffiane.

Poi c’è lui, Little Steven che tra un brano e l’altro ti spiega la “rava e la fava”, che canta non benissimo, ma sempre in modo convincente e sempre in modo perfetto per la musica che esegue, che ti spara assoli del suo strumento uno in fila all’altro conscio che non ti sta dimostrando quanto è bravo ma semplicemente per rassicurarti sul fatto che lui è lì in prima fila, che ci mette la faccia e si diverte.

Inutile credo scrivere di ogni singola canzone, anche perché sono circa una trentina, sono tutte belle, fiammanti, ritmate, a volte anche un po’ grossolane, ma sempre divertenti, ma qualche cenno va pur fatto.

Il concerto è introdotto dalla presentazione di Mike Stoller, mitico compositore degli anni d’oro del soul e prende il via pescando la medesima sequenza dei primi tre brani del precedente omonimo disco di studio e quindi Soulfire, I’m Coming Back che servono ad innalzare la temperatura anche se è la splendida Blues in my Business, un vecchio brano proposto da Etta James a dare un primo vero scossone; la versione è puro divertimento, con un intervento del trombone inatteso e formidabile e un’atmosfera che sa tanto di Blues Brothers, con un solo di piano pirotecnico e uno di sax contagioso.

E se Love on the Wrong Side of Town ci ricorda, se ce ne fossimo dimenticati per un attimo, che Little Steven ha suonato per anni al fianco del Boss, Saint Valentine Days ci fa pensare che sul palco ci potrebbero essere anche Roy Bittan e Nils Lofgren e che Little Steven non è neppure così male come cantante.

Le canzoni presenti sono quasi tutte scritte da Little Steven negli anni settanta, spesso ri-arrangiate per l’occasione in modo da poterle calzare alla perfezione al suono dei Discepoli dell’anima; a volte si tratta di brani scritti per altri artisti come per Southside Johnny: I Don’t Want to Go Home, brano che ha dato titolo a uno dei primi album del cantante armonicista, vive di un riff introduttivo secco con un coro di altri tempi e un effluvio di fiati che stordisce, mentre I’m Cominig Back, Some Things Just don’t Change e Love on the Wrong side of town (quest’ultima scritta con Bruce Springsteen) vengono riproposte con rinnovata vitalità.

C’è pure spazio per Standin’ in the lIne of fire, brano scritto nel passato per facilitare il ritorno sulle scene di un campione del soul e protetto di Springsteen, Gary U.S. Bond.

Sul finire del concerto non può mancare il brano forse più noto di Little Steven ossia Bitter Fruit (ricordo una cover non troppo riuscita di Antonello Venditti) che è introdotta dal suono anacronistico delle congas che lasciano poi spazio al refrain la cui popolarità ha travalicato i confini del genere. Il solo di timbales nel mezzo è pura goduria.

Insomma, forse l’avrete capito: Soulfire live è certamente ad oggi il più bel live del 2018 e probabilmente uno dei più belli di questo decennio.

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IN PILLOLE:

Monk – Thelonious Monk – ****: registrazione storica, risultato straordinario

Songs of the plain – Colter Wall ***1/2: se amate il country questo disco è imperdibile

Minus – Daniel Blumberg ***: indecifrabile, a tratti bellissimo

An American Treasure – Tom Petty ****1/2: raccolta piena di chicche

Look Now – Elvis Costello and the Imposters: poteva andare peggio. Elvis Costello rinnova il proprio amore per Burt Baharach

Bad Mouthin’ – Tony Joe White **1/2: blues un po’ troppo di maniera e privo di guizzi

Among the Ghosts – Lucero ***1/2: ottimo disco di una band che non sbagli un colpo

Out of the Blues – Boz Scaggs ***1/2: un classico, da ascoltare

From a White Hotel – Hawks and Doves ***1/2: uno dei rarissimi casi in cui il carcere ha riabilitato qualcuno

Bottle It In – Kurt Vile ***: impalpabile, a volte affascinante

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COSA HO RISCOPERTO:

The Atlantic Singles Collection – Aretha Franklin *****: capolavoro

King of California – Dave Alvin ****1/2: un lavoro splendido ispirato, splendido ancora ad anni di distanza.

Odessey and Oracle – The Zombies ***1/2: – Elvis Costello, i fratelli Gallagher e tutto il pop inglese forse non lo sanno, ma a questi “matti” molto devono

A wizard, a true star – Todd Rundgren ****1/2-: continuo a pensare che il vecchio Todd sia uno degli artisti più rappresentativi di sempre e che Just One Victory sia un una delle più belle canzoni mai scritte.

Sotto il segno dei pesci – Antonello Venditti ***1/2: comunque una delle miglior voci della musica italiana

Legenda Giudizio:

* era meglio risparmiare i soldi e andare al cinema
** se non ho proprio altro da ascoltare…
*** in fin dei conti, poteva essere peggio
**** da tempo non sentivo niente del genere
***** aiuto! Non mi esce più dalla testa

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