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Molte fedi

Liliana Segre a Bergamo: “Non siate indifferenti e stupitevi del male altrui” fotogallery

La senatrice a vita, italiana di origine ebraica, ha raccontato la propria testimonianza in merito alle leggi razziali, alla deportazione e all'orrore dei lager

“Non siate indifferenti, non omologatevi e stupitevi del male altrui”. Così la senatrice a vita Liliana Segre, testimone della Shoah, invita a non perdere l’umanità e a non lasciar prevalere comportamenti e atteggiamenti d’odio verso gli altri.

All’incontro che l’ha vista protagonista nella serata di venerdì 12 ottobre alla basilica di Santa Maria Maggiore per Molte fedi sotto lo stesso cielo, la rassegna culturale organizzata dalle Acli provinciali di Bergamo, si è rivolta a tutti e in modo particolare ai giovani. Tra il numeroso pubblico che vi ha preso parte, infatti, vi sono stati tanti studenti di diverse scuole superiori del territorio (liceo Mascheroni, Lussana e Falcone di Bergamo, Amaldi di Alzano Lombardo, Romero di Albino e Majorana di Seriate). I saluti iniziali e l’introduzione, invece, sono stati formulati da Daniele Rocchetti, presidente delle Acli provinciali di Bergamo, Patrizia Graziani, dirigente dell’ufficio scolastico territoriale di Bergamo e Matteo Rossi, presidente della Provincia di Bergamo.

Liliana Segre, italiana di origine ebraica, nonchè cittadina onoraria di Bergamo, ha raccontato la propria testimonianza in merito alle leggi razziali, alla deportazione e all’orrore dei lager. “Mi rivolgo a voi innanzitutto come una nonna farebbe con i suoi nipoti o con i suoi figli” – ha cominciato, precisando di aver vissuto il male assoluto, qualcosa di indicibile, una realtà che non ci sono parole per poter esprimere. Per molto tempo, infatti, non sono riuscita a parlare dell’esperienza nei lager: ho iniziato a diffonderne la testimonianza dopo essere diventata mamma e nonna. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella mi ha nominata senatrice a vita di quello stesso paese che ottant’anni prima da ragazzina mi aveva espulsa dalla scuola per effetto delle leggi razziali. In fondo, però, sono sempre quella bambina che in seconda elementare era stata esclusa senza aver fatto nulla. Fu un grande terremoto e non riuscivo a capire il motivo di quel provvedimento: la mia famiglia era laica, ai limiti dall’ateismo direi, e l’unica differenza rispetto alle mie compagne di classe era che all’ora di religione uscivo in corridoio. Poi agli occhi di tutti ho cominciato a diventare l’altra, e anche adesso lo sono, perchè al nome Liliana Segre viene sempre aggiunto l’aggettivo ebraica. Furono pochissimi ed eroici gli amici che rimasero accanto a me, a mio padre (mia madre era già morta) e ai miei nonni: iniziò un periodo di grande solitudine. C’era molta indifferenza rispetto a ciò che stava accadendo e per questo sostengo sempre che l’indifferenza è peggio della violenza, perchè da quest’ultima ci si può difendere ad esempio chiamando la polizia, mentre dalla prima no”.

La situazione precipitò molto rapidamente. Liliana Segre prosegue: “Ricordo della guerra e dell’8 settembre, della grande confusione che ne scaturì e del fuggi fuggi generale di ebrei: nessuno sapeva o avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe accaduto successivamente salvo per le persone più benestanti che magari avevano parenti in America e, dopo aver intuito qualcosa, si trasferirono e riuscirono a salvarsi. A un certo punto, mio padre mi affidò a una famiglia che voleva aiutarci, al signor Pozzi prima e ad altre persone poi, anche se io, non capendo ciò che si stava verificando, non volevo lasciare casa nostra. Preoccupato per i nonni malati e per me, stava impazzendo: era molto legato a me, anche considerando che era rimasto vedono a 31 anni, ero la sua principessa e non riusciva a darsi pace sapendo che fossi in pericolo. Tentammo di fuggire in Svizzera: con tanta fatica raggiungemmo il confine, ma un ufficiale svizzero tedesco ci respinse e venimmo arrestati dai finanzieri italiani. In quel momento mi resi conto del fatto che non tutti i genitori sono vincenti anche se da adolescenti spesso siamo portati a pensare che riescano a fare tutto. Ammanettarono mio padre, lui che era stato ufficiale della prima guerra mondiale che era orgoglioso di essere italiano, che era laureato alla Bocconi e aveva un bel lavoro ed era un galantuomo. Ricordo che le sue belle mani e i suoi bei polsi avevano le manette, non riusciva a parlare e aveva gli occhi rossi. Ci condussero al carcere di Varese prima e a quello di Como e in testa avevo sempre le stesse domande, ossia non riuscivo a capire cosa avessimo fatto per essere perseguitati. Poi ci spostarono a San Vittore, che fu l’ultimo ambiente che dividemmo. Era terribile e spesso piangeva scusandosi con me per avermi messa al mondo, nonostante tutto però eravamo ancora insieme. A un certo punto, lasciammo San Vittore senza sapere dove saremmo andati e quanto tempo sarebbe durato il viaggio. Eravamo come degli animali o delle merci: era tutto calcolato, c’erano state altre persone, che non erano pazzi e che avevano preparato i lager e lo sterminio. I disabili, invece, erano già stati uccisi precedentemente nell’indifferenza generale. Gli unici ad aver pietà nei nostri confronti furono i carcerati comuni, che si dimostrarono uomini mentre in molti altri casi avevamo incontrato mostri nella nostra vita. A calci e pugni ci fecero salire su vagoni bestiame. Fu il primo passo verso Auschwitz – Birkenau: eravamo stipati e in condizioni disumane. I soli a non abbattersi furono i religiosi, che riuscirono lo stesso a lodare il Signore e da quel momento ho pensato che avere fede fosse una fortuna. Ricordo anche il silenzio che ci accompagnava, che venne brutalmente interrotto dalle urla e dai fischi delle guardie che in tedesco ci intimavano di scendere dai vagoni. Parlando nella nostra lingua, sentimmo una voce, abbastanza rassicurante che invitava a rimanere calmi spiegandoci che, dopo averci registrato, gli uomini avrebbero lavorato e le donne si sarebbero occupate dei figli per poi ritrovarsi la sera. Invece, non rividi più mio padre. Divisero gli uomini dalle donne, in fila ci condussero verso il lager femminile di Birkenau, oltrepassammo il cancello ed entrammo: ci domandammo subito dove fossimo arrivati, notando soldati in divisa e donne pelate, scheletrite, donne in punizione, donne con gli zoccoli e vestite di stracci… era agghiacciante. Intanto, ci tolsero tutto ciò che avevamo con noi, ci rasarono i capelli e tatuarono: eravamo diventate altre. Alcune donne francesi già presenti nel lager ci parlarono delle camere a gas e dei forni in cui venivano bruciati i corpi, ci consigliarono di essere obbedienti, di non farci notare e di non guardare i soldati in faccia: sembrava di essere in un manicomio e invece i loro si rivelarono saggi consigli: avevamo il male assoluto attorno a noi”.

Tra i ricordi ve n’è uno semplice ma emblematico. La senatrice a vita continua: “I letti in cui dormivamo in 5 o 6 persone erano pieni di insetti come pidocchi e ragni ma al mattino bisognava coprire tutto con una coperta. Penso che questo gesto sia un simbolo: tutto doveva risultare perfetto e ordinato, dovevano esserci obbedienza, ordine e disciplina, anche se poi vi era il male assoluto. Era difficile capirlo, ma alla fine scelsi la vita, non solo io: nessuna avrebbe voluto morire. La vita va sempre vissuta, perchè in un momento può essere meravigliosa e in un altro diversa ma, anche quando tutto sembra più difficile, bisogna essere forti e cercare di pensare a ciò che ci rende felici. È stato un caso se sono riuscita a sopravvivere, sicuramente mi ha aiutata l’aver lavorato al coperto: eravamo delle schiave, che lavoravano finchè potevano. Fisicamente eravamo diventate delle amebe: ricordo che quando ci spostavamo dal campo alla fabbrica incontravamo ogni giorno dei ragazzi tedeschi che ci insultavano con espressioni indicibili e ci sputavano addosso, li odiavo e avrei voluto vendicarmi. Uscita dal lager, molti anni dopo, mi sono accorta di non odiarli più: io avevo amato ed ero stata amata, mentre loro mi facevano pena ed ero più forte di loro perchè a parti invertite non avrei mai adottato una teoria dell’odio come quella che avevano perpetrato. Sono testimone di vita, di amore e non di odio: a questo proposito ho presentato un disegno di legge contro i discorsi d’odio”.

Altro aspetto della vita nel lager era la fame. Segre evidenzia: “Avevamo tanta fame, tra noi parlavamo sempre di cucina e del fatto che ci saremmo invitate a vicenda se fossi sopravvissute. Noi eravamo affamate e oggi oltre un miliardo e mezzo di persone nel mondo muore di fame: tutto ciò che abbiamo sulla nostra tavola è fantastico e non bisogna gettare il cibo. Molti vengono in Italia dagli altri Paesi perchè vedono le pubblicità in cui spreco e consumismo sono idealizzati: siate unici, particolari, non vestitevi tutti nello stesso modo, non omologatevi e non sprecate”.

La senatrice, poi, invita ad avere “stupore per il male altrui, come quello che si è visto negli occhi dei soldati russi quando sono entrati ad Auschwitz, lo stesso che scorsi nelle altre ragazze quando alcuni prigionieri di guerra francesi che incontrammo vicino al lager ci dissero che la guerra stava finendo, che i tedeschi stavano perdendo e che sarebbero arrivati i russi e gli americani”.

Per concludere, ricorda: “Quando cominciò la marcia della morte e un gendarme tedesco gettò via la divisa e la sua pistola arrivò ai miei piedi, pensai di chinarmi, prenderla e sparagli ma non lo feci perchè così sarei stata violenta come lui e invece, come la mia famiglia mi ha insegnato, sono una donna di pace”.

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