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On the road

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Dure scalette che portano al paradiso: ma cosa sono Scorlazzino e Scorlazzone?

Si tratta di due meravigliose scalette, che salgono da San Martino della Pigrizia a via Sudorno, proseguendo, dopo il breve iato dei torni, fino alla chiesa di San Vigilio: il loro nome ricorda alcune espressioni dialettali.

I dialetti, probabilmente, mancano di quella capacità divina di piegarsi alle esigenze dei più arditi voli retorici, che hanno certe lingue nazionali: il dialetto nasce dalla vita quotidiana, è fatto per risolvere rapidamente bisogni di comunicazione pratica e conserva i caratteri originari di un popolo, perché ne esprime le attività primarie.

Semmai, dunque, la bellezza di un dialetto sta nel suo uso icastico, nell’immediatezza, nella sintesi meravigliosa.

È normale, quindi, che ogni dialetto esalti, nel proprio vocabolario, i campi semantici più strettamente legati alla vita quotidiana di chi quel dialetto utilizza ogni giorno. Se, in italiano, roncola e falcetto esauriscono, per esempio, la coltelleria da lavoro, i bergamaschi hanno sottilissime distinzioni tra podèt, podetì e podetù, pighes e pighesì, ranza e scorlass.

A riprova di una vita di lavoro tra il bosco, l’orto e la stalla, in cui coltelli e falci erano compagni essenziali di fatica. E, proprio da quest’ultimo termine, “corlass o scorlass” derivano, probabilmente, due dei nomi più simpaticamente misteriosi dell’odonomastica orobica: Scorlazzino e Scorlazzone.

Si tratta di due meravigliose scalette, che salgono da San Martino della Pigrizia a via Sudorno, proseguendo, dopo il breve iato dei torni, fino alla chiesa di San Vigilio, e che ricordano, nel proprio nome, proprio quella varietà di utensili di cui dicevamo: lo scorlassì, piccolo coltello da macelleria, e lo scorlassù, specie di mannaia o coltellaccio, adibito ai medesimi scopi.

Come dire: coltellino e coltellone, insomma.

Tra l’altro, in bergamasco, l’uso dello scorlass sottintende un lavoro piuttosto grossolano: “facc zò col corlass o col podet” significa, a un dipresso, sbozzato malamente, tirato via in qualche maniera. E si usa, ahimè, anche per sottolineare gli errori che madre natura fa, talvolta, nel regalare agli umani lineamenti non proprio delicati.

Perché dunque, quei due viottoli medievali, tanto suggestivi nel loro sviluppo e negli incomparabili panorami che ci offrono sui nostri colli, hanno un nome così bizzarramente coltellesco?

Un nome apparentemente tanto incongruo da avere dato la stura ad interpretazioni piuttosto fantasiose sulla genesi dell’odonimo stesso.

Facciamo un paio di ipotesi di quelle cimminiane, ovverosia del tutto a pera: la prima è che lo Scorlazzino e lo Scorlazzone apparissero come un taglio netto, nel fianco armonioso del colle, e che la gente avesse loro attribuito questo nome proprio in virtù del loro tagliare nettamente il profilo della valletta che, da San Martino, sale a San Vigilio.

scorlazzino scorlazzone

La seconda è che il loro percorso, che, specialmente nella prima parte, è tutt’altro che rettilineo, e la loro pendenza disomogenea, avessero suscitato qualche perplessità nel popolo, fino a fargli esclamare: “l’è prope facc zò col scorlass!”

Fatto si è che, oggi, quelle due scalette, che in alcuni tratti paiono più un delizioso sentiero selciato e in altri affrontano pendenze più selettive e si trasformano in vere e proprie scalinate, nonostante bissabobe e disomogeneità, di essere fatte con lo scorlass non danno davvero l’impressione: anzi, ci riempiono il cuore di semplice gioia, quando le percorriamo in una limpida giornata di sole.

La città, con i suoi semafori e i suoi rumori pare lontanissima: e, invece, è solo dietro il declivio del colle. Ti sembra di essere stato trasportato in una Bergamo serena, coi suoi contadini e i suoi ortolani che lavorano le terrazze faticose, con le sue chiesette e le sue fontanelle: una Bergamo remota e bellissima. Fino alla meta: fino al castello di San Vigilio, che domina il cerchio verde intorno al capoluogo, dalla Ramera a San Sebastiano. E, un po’ accaldato, ma felice, guardandoti indietro, non puoi evitare di pensare: oter che scorlass: chesto chè l’è ol Paradis!

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